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Il valore della merce “forza-lavoro” In evidenza

Parte del lavoro della Scuola Rossa: Incontro con Lenin

In questa lezione del seminario “Incontro con Lenin”, continuiamo a trattare il testo di Lenin “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”, e a discutere di economia politica. Abbiamo analizzato nella precedente lezione il plusvalore, il capitale scisso tra costante e variabile, il salario e i saggi del plusvalore e del profitto.

Video-lezione disponibile sul canale YouTube della Scuola Rossa: https://youtu.be/iVyzb8cU1vs?si=Wjbpj607O5Im01Zi

Riprendiamo ora alcuni concetti sul salario. Vediamo diverse forme di salario: il salario nominale, il salario reale e il salario relativo.

  1. Il salario nominale è il prezzo della forza-lavoro in denaro, ovvero la somma di denaro che l’operaio riceve dal capitalista per la vendita della sua forza-lavoro;
  2. Il salario reale è il rapporto tra il prezzo della forza-lavoro e il prezzo di tutte le altre merci;
  3. Il salario relativo è il rapporto tra il prezzo della forza-lavoro e il prezzo del lavoro accumulato.

Di conseguenza, considerando i salari reali complessivi, essi sarebbero costanti nel tempo se e solo se rimane costante il rapporto tra il prezzo della forza-lavoro complessiva e il prezzo di tutte le altre merci.  Naturalmente, dal lato della classe dei capitalisti, la tendenza sarebbe, in regime di libera concorrenza, quella di abbassare il prezzo della merce prodotta per soggiogare i competitori e vendere il più possibile, oppure, in regime monopolistico, o comunque in un regime molto lontano dalla libera concorrenza, di alzare il prezzo delle merci a piacimento per massimizzare i profitti, mantenendo magari costante il livello dei salari nominali oppure addirittura abbassarli. Comunque vada, sempre dal lato della classe dei capitalisti che vendono beni di sussistenza necessari alla classe operaia per la soddisfazione dei loro bisogni assoluti, la tendenza ad un abbassamento dei prezzi nel caso di una forte concorrenza tra i venditori, porterebbe ad un aumento dei salari reali a parità di salari nominali, e ciò comporterebbe la volontà da parte dei capitalisti di abbassare i salari nominali.

Nel caso di un innalzamento dei prezzi dei beni si sussistenza in vendita per una massimizzazione dei profitti, possibile poiché bassa o nulla è la concorrenza dal lato dell’offerta, per esempio in regime monopolistico, e considerando salari nominali invariati, i salari reali diminuirebbero, ovvero gli operai potrebbero comprare meno beni a parità di salario in denaro. Qui ci sarebbe la tendenza da parte della classe operaia di richiedere un innalzamento dei salari nominali, contro la volontà dei capitalisti perché ciò andrebbe comunque ad intaccare i profitti. La volontà da parte degli operai di richiedere un aumento dei salari nominali potrebbe anche non avere l’effetto di un aumento dei salari reali. Ciò dipenderebbe dai prezzi dei beni di consumo necessari alla vita e riproduzione della classe operaia stessa.

Scrive Marx in “Lavoro salariato e Capitale” che

il salario ora aumenterà, ora diminuirà, a seconda del rapporto tra domanda e disponibilità, a seconda del modo come si configura la concorrenza fra i compratori di forza-lavoro, i capitalisti, e i venditori di forza-lavoro, gli operai. Alle oscillazioni dei prezzi delle merci in generale corrispondono le oscillazioni del salario. Nei limiti di queste oscillazioni, però, il prezzo della forza-lavoro sarà determinato dai costi di produzione, dal tempo di lavoro che si richiede per produrre questa merce, la forza-lavoro.

Di conseguenza, il desiderio, la volontà, la tendenza da parte delle classi di abbassare o innalzare i salari oppure i profitti, si scontra con la realtà, ovvero con le leggi del capitale e il suo movimento.

Scrive Marx in “Salario, prezzo e profitto”, che

l'ammontare dei salari realmente pagato corrisponde sempre, in ogni momento, al necessario ammontare dei salari, e non se ne discosta mai.

Cosa si intende?

Si intende che il prezzo della forza-lavoro, il suo valore nella forma denaro, è determinato dai costi di produzione della forza-lavoro stessa, e tali costi non sono altro che i costi necessari alla vita e alla riproduzione del soggetto-uomo-operaio, in quanto classe. Ciò implica conservare l’uomo in quanto operaio e fare in modo che ci sia riserva di operai nel caso l’operaio si degradi e diventi obsoleto, rotto, improduttivo, proprio come le macchine. L’ammontare dei salari, quindi, varia poiché corrisponde al necessario ammontare dei salari e tale “necessario ammontare” varia come esposto precedentemente. Il termine “necessario” è legato alla quantità di denaro necessario per la soddisfazione dei bisogni assoluti; i soli bisogni che sicuramente l’operaio deve e può soddisfare.

Scrive Marx che

è un fatto incontestabile che la classe operaia, considerata nel suo insieme, spende e deve spendere tutto il suo salario in oggetti di prima necessità.

E ciò ci porta alla domanda retorica di Marx:

Con quale artifizio il capitalista è in condizione di dare per cinque scellini il valore di quattro scellini? Con l'aumento del prezzo delle merci che egli vende.

Questo passaggio può essere esposto differenziando tra il sottoinsieme della classe dei capitalisti che vende mezzi di sussistenza che vanno a coprire i bisogni assoluti, e il resto della classe dei capitalisti che vende il resto delle merci, che possiamo indicare come beni di lusso.

Supponiamo che ci sia un innalzamento generale dei salari, in regime di libera concorrenza. Stiamo supponendo un aumento dei salari in denaro, diremmo in busta paga, e tale aumento provocherebbe un aumento della domanda di merci che vanno a soddisfare i bisogni assoluti da parte della classe operaia. Tale aumento della domanda di queste merci, fa innalzare il loro prezzo di mercato. Quindi, quella parte della classe capitalistica che vende questi beni di prima necessità sarebbe compensata sull’aumento generalizzato dei salari grazie all’aumento dei prezzi delle merci in vendita.

Cosa succede, invece, alla rimanente parte della classe dei capitalisti che non vende beni di prima necessità, ma vende beni di lusso? Per esempio, vende tutti quei beni che vanno a soddisfare bisogni relativi, sociali, ovvero bisogni emersi, sviluppati dall’incremento complessivo della ricchezza sociale e che non fanno assolutamente parte del cestino dei bisogni vitali degli operai? Chiamiamo questi beni: beni di lusso.

Essi non potrebbero coprire l’innalzamento dei salari nominali, che sono tenuti comunque a sborsare all’operaio per l’acquisto della forza-lavoro a parità di tutte le condizioni al contorno, con l’aumento dei profitti dovuto all’aumento della domanda che, come detto, non c’è. Non essendoci aumento di domanda di questi beni di lusso, non vi è aumento dei prezzi e quindi non ci sono quei maggiori profitti che vanno a compensare la maggiorazione generale dei salari. Cosa succede, dunque?

Sappiamo come il plusvalore sia un incremento del capitale variabile al termine del processo di produzione e come il saggio del plusvalore sia il rapporto tra il plusvalore stesso e il capitale variabile. Il capitale variabile è la somma dei valori dei mezzi di sussistenza, ovvero quella parte di capitale che si materializza in forza-lavoro, o se vogliamo usare altre parole, quella somma di denaro speso da parte del capitalista per l’acquisto della forza-lavoro. Il salario nominale, appunto.

Un aumento del salario nominale è un aumento di capitale variabile e ciò comporta una diminuzione del saggio del profitto a parità di capitale costante. Meno profitto, o meglio una minore valorizzazione del capitale anticipato, porta a una minore capacità di acquistare proprio quei prodotti che non sono di prima necessità e ciò porta ad un abbassamento dei prezzi essendo bassa la domanda. Inoltre, questa fetta di classe capitalistica dovrà comunque comprare beni di sussistenza a prezzi, ora, più alti, e di conseguenza pagare di più a parità di quantità di merci di prima necessità tra il prima e il dopo l’innalzamento generalizzato dei prezzi. 

Se ne conclude che il saggio del profitto cadrebbe non soltanto in rapporto diretto all'aumento generale del livello dei salari, ma in rapporto all'azione combinata dell'aumento generale dei salari, all'aumento dei prezzi delle merci di prima necessità e della caduta dei prezzi delle merci che non sono di prima necessità.

Come abbiamo discusso in “Lavoro salariato e capitale”, ciò comporterebbe una migrazione di capitale verso i rami di produzione più remunerativi, e ciò sino al raggiungimento di un rinnovato equilibrio generalizzato.

Scrive Marx che

la caduta del saggio del profitto, conseguente all'aumento dei salari, diventerebbe così generale, invece di rimanere limitata solo ad alcuni rami di industria. Secondo la nostra supposizione, non si sarebbe verificato nessun mutamento né nelle forze produttive del lavoro, né nell'ammontare totale della produzione; quella data massa di produzione avrebbe soltanto cambiato la sua forma. Una parte maggiore della produzione esisterebbe ora sotto la forma di oggetti di prima necessità, una parte minore sotto la forma di oggetti di lusso. L'aumento generale del livello dei salari, non porterebbe dunque ad altro, dopo un turbamento temporaneo dei prezzi di mercato, che alla caduta generale del saggio del profitto, senza alcuna variazione durevole nel prezzo delle merci.

Ciò perché l’aumento dei salari comporta l’aumento della forza d’acquisto degli operai a cui corrisponde esattamente la diminuzione della forza d’acquisto dei capitalisti. Complessivamente, la domanda complessiva dei beni non aumenterebbe, poiché da una parte aumenterebbe e dall’altra diminuirebbe. La crescente domanda da una parte sarebbe compensata dalla domanda decrescente dall'altra parte. Di conseguenza, se la domanda complessiva delle merci rimanesse invariata, non potrebbe esserci alcuna variazione durevole del prezzo di mercato delle merci. L'aumento generale del livello dei salari non avrà infine altra conseguenza che una caduta generale del saggio del profitto.

L’esempio di Marx sul termometro è illuminante poiché si lega a ciò che riguarda bassi oppure alti salari. Scrive Marx:

Che cosa sono gli alti salari, e che cosa sono dei bassi salari? Perché, per esempio, cinque scellini la settimana sono considerati un salario basso, e venti scellini un salario alto? Se cinque è basso in confronto a venti, venti è ancora più basso in confronto a duecento. Se uno fa una conferenza sul termometro e incomincia a declamare sui gradi alti e sui gradi bassi, non insegna niente a nessuno. Egli deve incominciare con lo spiegarmi come vengono determinati il punto di congelamento e il punto di ebollizione, e come questi punti di paragone sono determinati da leggi della natura, e non dalla fantasia dei venditori e dei fabbricanti di termometri.

I concetti di basso e alto sono arbitrari, e ciò è stato da noi visto anche in “Lavoro salariato e capitale.” Ovvero:

Ma che cosa significa aumento, diminuzione dei prezzi, prezzo alto e prezzo basso? Un granello di sabbia è alto se lo si guarda al microscopio, e una torre è bassa in confronto con una montagna. E se il prezzo è determinato dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, da che cosa è determinato a sua volta quest’ultimo rapporto?

Rivolgiamoci a un qualsiasi borghese. Egli non esiterà un momento, e, come un secondo Alessandro il Grande, taglierà questo nodo metafisico con l’aiuto della tavola pitagorica. Se la produzione della merce che io vendo mi è costata 100 franchi, ci dirà, e dalla vendita di essa ricavo 110 franchi, entro lo spazio di un anno, s’intende, questo è un guadagno civile, onesto, legittimo. Ma se ricevo in cambio 120, 130 franchi, il guadagno è forte; se poi ne ricavo 200 franchi, il guadagno sarebbe straordinario, enorme. Che cosa serve dunque al borghese come misura del guadagno? I costi di produzione della sua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di meno, ha perduto. Se in cambio della sua merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di più, ha guadagnato. La diminuzione o l’aumento del guadagno egli li misura dai gradi che il valore di scambio della sua merce si trova sopra o sotto lo zero, cioè sopra o sotto i costi di produzione.

Abbiamo visto come il rapporto mutevole tra la domanda e la disponibilità provoca ora un ribasso, ora un rialzo dei prezzi, ora prezzi alti, ora prezzi bassi.

Il prezzo di una merce non è determinato dalla domanda e dall’offerta della merce. La domanda e l'offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi sul mercato, quindi, ci diranno il “perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non ci possono mai spiegare questo valore”.  

Marx scrive che

nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente a che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell'offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci.

Sconfessiamo un credo. Ovvero che i prezzi delle merci vengano determinati o regolati dai salari.

Cosa significa che i prezzi delle merci sono determinati dai salari? Significa che il prezzo delle merci è determinato dal prezzo della forza-lavoro. Ma il prezzo è il valore della merce, valore in quanto valore di scambio, in denaro e, di conseguenza, tutto si riduce al fatto che il valore della merce sia determinato dal valore della forza-lavoro la quale è anch’essa merce. Di conseguenza, il valore di una merce generica è determinato dal valore di una merce specifica, la forza-lavoro. Ma se il valore di una merce generica, e quindi delle merci in generale, è determinato dal valore della forza lavoro in quanto merce, cosa determina il valore della forza-lavoro? Come si calcola? È sempre merce e, di conseguenza, tale ragionamento è inconclusivo poiché non spiega come si determini il valore della merce forza-lavoro, che è comunque sempre una merce.

Scrive Marx che “nella sua forma più astratta, il dogma che ‘i salari determinano i prezzi delle merci’ si riduce a dire che il valore è determinato dal valore”. Quindi, rimaniamo con il cerino in mano e la domanda rimane.

Cosa è il valore di una merce e come si determina?

Abbiamo già introdotto in passato che la merce si presenta come valore d’uso e valore di scambio. Il valore d’uso di una merce coincide con la sua esistenza naturale tangibile e, in quanto valore d’uso, la merce è un oggetto atto a soddisfare bisogni ed è quindi mezzo di sussistenza nel senso più generale del termine. Il ferro è un valore d’uso, per esempio, differente dal valore d’uso carbone, diamante, frumento. Ogni valore d’uso si realizza nel consumo.

Il valore di scambio è il valore della merce entro il quale valori d’uso differenti sono scambiati. Quantità, o proporzioni differenti di merci qualitativamente differenti in quanto valori d’uso differenti costituiscono la stessa “grandezza di valore”, lo stesso valore di scambio e possono essere scambiati.

Scrive Marx che

quando parliamo del valore, del valore di scambio di una merce, intendiamo le quantità relative nelle quali essa può venire scambiata con tutte le altre merci. Ma allora sorge la questione: come sono regolati i rapporti secondo i quali le merci vengono scambiate tra di loro?

Se una determinata quantità di una merce è scambiabile con un’altra determinata quantità di una seconda merce, e così via, ci sono allora tante proporzioni di valori d’uso equivalenti come valori, ovvero uguali in valore, o valore di scambio. Cosa determina allora questa equivalenza? Per esempio, se riprendessimo l’esempio che Marx fa nel testo quando considera il frumento, una certa quantità di frumento può essere scambiato con determinate quantità di ferro, determinate quantità di carbone e ciò significa che vi è un valore equivalente, il valore di una ulteriore cosa che non è né frumento, né ferro, né carbone. Questo valore equivalente è la misura comune a cui determinate quantità di valori d’uso qualitativamente differenti sono riconducibili.

Naturalmente lo scambio è una funzione sociale che il filatore e tessitore dentro il nucleo familiare feudale non persegue. Questo passaggio ci permette di chiarire brevemente, ma lo faremo prossimamente in modo esaustivo, che la merce si presenta sì come valore d’uso e valore di scambio, quindi valore, ma un valore d’uso non è necessariamente una merce. In altre parole, un oggetto può essere valore d’uso senza essere valore.

Per esempio, l’aria, il terreno vergine, i prati naturali, tutto ciò che esiste in quanto “esistenza naturale tangibile” senza che sia ottenuta tramite l’atto del lavoro da parte del soggetto-uomo, è valore d’uso ma non è ovviamente merce. Così come tutto ciò che viene prodotto dal soggetto-uomo per il proprio consumo, parliamo qui di produzione patriarcale, è sì valore d’uso ma non merce. Per produrre merce, il produttore deve produrre sì valori d’uso ma valori d’uso per gli altri, ovvero valori che altri hanno necessità per la soddisfazione dei propri bisogni, mediante lo scambio. Essendo valori d’uso per altri, essi sono valori d’uso sociali e quindi lo scambio è una funzione sociale.

Scrive Engels che

il contadino medievale produceva il grano d’obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete. Ma né il grano d’obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto di essere prodotti per altri. Per diventare merce il prodotto deve essere trasmesso all’altro, a cui serve come valore d’uso, mediante lo scambio.

Scrive Marx che

l'uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un prodotto, ma non una merce. Come produttore che provvede a se stesso, egli non ha niente che fare con la società.

Quindi, il soggetto-uomo che produce ma non scambia è quindi fuori dalla società e il suo prodotto è valore d’uso ma non merce. Il soggetto-uomo che produce l’oggetto che è valore d’uso ma non valore di scambio, non merce, poiché lo usa esclusivamente per la soddisfazione di bisogni personali e non per la società, produce lavoro oggettivizzato ma non alienato.

Abbiamo sì oggettivizzazione ma non alienazione. L’alienazione è estraniazione e quindi essa si materializza nella produzione di oggetti-merci, non di oggetti non merci che rimangono a beneficio, in quanto valori d’uso, del produttore per la soddisfazione dei propri bisogni. Significativo è il fatto che la merce in quanto valore d’uso e valore di scambio, sia tramite lo scambio, valore d’uso per altri e non necessariamente per il produttore salariato stesso che produce quel valore d’uso, soprattutto nel caso di merci in quanto beni di lusso irraggiungibili per il soggetto-produttore-operaio.

Tornando, quindi, alla misura comune, al valore equivalente al quale determinate quantità di valori d’uso qualitativamente differenti si riconducono, la domanda è: cosa è questa misura comune, questa “sostanza sociale”, come dice Marx, comune a tutte le merci?

Scrive Marx che

per produrre una merce egli [il produttore, l’operaio per esempio] non deve soltanto produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno sociale [bisogni della società, dei membri della società, bisogni che come detto possono anche non coincidere con quelli del produttore stesso per diversi motivi], ma il suo lavoro stesso deve essere una parte della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Esso deve essere subordinato alla divisione del lavoro nel seno della società. Esso non è niente senza gli altri settori del lavoro e li deve, a sua volta, integrare.

La merce, quindi, è valore d’uso che ha un valore e tale valore è lavoro sociale materializzato. Di conseguenza, se il valore della merce è lavoro sociale materializzato, tale valore è determinato da quanto lavoro sociale è stato necessario per la produzione della stessa merce. Non da quanto lavoro ma da quanto lavoro sociale, lavoro ovvero compiuto nei diversi passaggi della divisione del lavoro sino al prodotto finito. Non solo quindi, l’atto del lavoro finale che, per esempio, dal filo si ottiene il tessuto, ma tutto il lavoro, finale e precedente, per arrivare al tessuto.

Lo vedremo meglio nella prossima lezione, ma ricordiamo che abbiamo già introdotto che

i mezzi di produzione in quanto lavoro accumulato sono valori precedentemente generati. Il tempo di lavoro necessario per la produzione dei valori d’uso che andranno ad essere consumati nel nuovo processo produttivo, costituiscono una parte del tempo di lavoro necessario per la produzione del nuovo valore d’uso. In altre parole, il tempo di lavoro necessario per la produzione del cotone, della filatrice e di ciò che serve per la produzione del filo, costituisce una parte del tempo di lavoro necessario per la produzione del filo stesso. Che, a sua volta, costituisce una parte del tempo di lavoro necessario per la produzione del tessuto.

Intanto analizziamo cosa si intenda per quantità di lavoro sociale per la determinazione del valore della merce. La misura della quantità di lavoro è la quantità di tempo di lavoro, ovvero il tempo necessario per il completamento di un determinato lavoro che coincide con il tempo necessario per la produzione di una determinata merce. L’unità di misura può essere ore, giorni, settimane, ecc. Quando consideriamo la quantità di tempo necessario per la produzione di una merce dobbiamo supporre che il tempo di lavoro è tempo del lavoro medio, tempo di lavoro semplice.

Una merce ha un valore di scambio, e la grandezza del suo valore, o valori relativi, dipende dalla quantità più o meno grande di tempo di lavoro necessario alla sua produzione. I valori di scambio delle merci sono determinati dalle corrispondenti quantità di tempo di lavoro necessarie alla loro produzione e valori sono uguali se uguali sono le quantità di tempo di lavoro necessarie per la produzione delle relative merci.

Scrive Marx che

il valore di una merce sta al valore di un'altra come la quantità di lavoro fissata nell'una sta alla quantità di lavoro fissata nell'altra.

Ciò ci porta alla conclusione che il valore di una merce che è determinato dalla quantità di tempo di lavoro sociale necessario alla sua produzione non c’entra nulla con il salario, ovvero con il valore della forza-lavoro in denaro.

In conclusione, riporta Marx:

Supponiamo dunque che un quarter di grano e un'oncia d'oro posseggano lo stesso valore, cioè siano equivalenti, perché sono la cristallizzazione di uguali quantità di lavoro medio, perché rappresentano tanti giorni o tante settimane di lavoro fissato in ognuno di essi. Determinando in questo modo i valori relativi dell'oro e del grano, ci riferiamo noi, in un modo qualunque, ai salari degli operai agricoli o dei minatori? Menomamente. Per nulla.

Difatti

i salari possono essere stati molto diversi. L'operaio il cui lavoro è incorporato in un quarter di grano, può averne ricevuto soltanto due bushel, mentre l'operaio occupato nella miniera può aver ricevuto la metà della oncia d'oro.

Abbiamo visto che il tasso superiore del salario non può andare oltre quella soglia che neghi la generazione di plusvalore. I salari dei produttori-operai non possono superare questa soglia, né essere uguale ma sempre sotto; devono essere più bassi ma non sotto il limite legato alla soddisfazione dei bisogni per la vita e la riproduzione in quanto classe.

Nell’esempio di Marx del grano e dell’oro, i valori relativi del grano e dell'oro vengono fissati senza tenere conto del valore della forza-lavoro impiegato in essi, cioè dei salari.

Quando consideriamo il valore di una merce, consideriamo non solo la quantità di tempo di lavoro usato nell’ultimo passaggio della produzione, ma anche le quantità di lavoro anteriormente compiute e incorporate nel lavoro accumulato usato per la produzione. Quindi oltre alla quantità di tempo di lavoro usato per la produzione dell’abito, dobbiamo considerare la quantità di tempo di lavoro usato per la produzione delle materie prime, gli strumenti del lavoro, le macchine, le materie ausiliarie, ecc.

Come esempio Marx riporta che

il valore di una certa quantità di filati di cotone è la cristallizzazione della quantità di lavoro che è stata aggiunta al cotone durante il processo di filatura, della quantità di lavoro già precedentemente realizzata nel cotone stesso, della quantità di lavoro incorporata nel carbone, negli oli e nelle altre sostanze ausiliarie impiegate, e della quantità di lavoro fissata nella macchina a vapore, nei fusi, nell'edificio della fabbrica, e così via.

Quando trattiamo del lavoro, abbiamo anticipato che trattiamo di lavoro sociale e ciò non indica lavoro individuale ma quantità di lavoro necessaria per la produzione in un determinato stato sociale, in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato. Ciò è importante poiché se si è a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, e a un certo stato dei rapporti sociali di produzione, e di conseguenza della società, la quantità di tempo di lavoro necessaria per la produzione di una merce è da intendersi con questo grado di sviluppo.

Scrive Marx che

quando diciamo che il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro in essa incorporata o cristallizzata, intendiamo la quantità di lavoro necessaria per la sua produzione in un determinato stato sociale, in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato.

Di conseguenza, la quantità di tempo di lavoro socialmente necessaria per la produzione di una merce determina il valore di scambio della merce stessa, e ogni aumento o diminuzione della quantità di tempo di lavoro necessaria per la produzione aumenta o diminuisce il valore di scambio di tale merce.

La quantità di tempo di lavoro necessaria varia naturalmente con il variare del grado di sviluppo delle forze produttive. Più aumenta il grado di sviluppo delle forze produttive che entrano i processi di produzione, più merci vengono prodotte a parità di quantità di tempo di lavoro, minore sarebbe la quantità di tempo di lavoro necessaria alla produzione di una determinata quantità di merce e di conseguenza minore sarebbe il suo valore. Il contrario avviene con una diminuzione del grado di sviluppo delle forze produttive.

Nei due casi riportiamo esempi di Marx. Se, per esempio, in seguito all'aumento della popolazione si rendesse necessario coltivare terreno meno fertile, la stessa quantità di produzione si potrebbe ottenere solo con l'impiego di una maggiore quantità di lavoro, di tempo di lavoro, e perciò il valore dei prodotti agricoli aumenterebbe. D'altra parte, è chiaro che se nel corso di una giornata di lavoro di un solo filatore, con l'aiuto dei moderni mezzi di produzione, trasforma in filo una quantità di cotone mille volte superiore a quanto egli poteva filare prima con il relativo strumento a mano, ogni singola libbra di cotone assorbirà un lavoro di filatura mille volte inferiore a quello di prima, e perciò il valore aggiunto a ogni libbra di cotone con la filatura sarà mille volte minore di prima. Il valore del filo cadrà in misura corrispondente.

I valori delle merci sono direttamente proporzionali alla quantità di tempo di lavoro impiegato per la produzione di esse, e inversamente proporzionale al grado di sviluppo delle forze produttive impiegate.

Vediamo ora il prezzo il quale è prima di tutto l’espressione monetaria del valore. Nel caso specifico riportato da Marx, consideriamo che i valori delle merci vengano espresse in prezzi-oro oppure in prezzi-argento. L’oro e l’argento sono naturalmente merci e ciò indica che il loro valore è determinato dalla quantità di tempo di lavoro necessaria ad estrarre tali valori d’uso. Lo scambio, quindi, tra la merce filo il cui valore espresso monetariamente in oro e la merce oro, è lo scambio tra una determinata quantità di tempo di lavoro e un’altra determinata quantità di tempo di lavoro. Esprimiamo i valori di tutte le merci in termini di oro oppure argento. Ciò implica esprimere i valori di tutte le merci in termini di una forma di valore indipendente e omogenea, ovvero di “uguale lavoro sociale”.

Il prezzo in quanto espressione monetaria del valore è il prezzo naturale.

Quale è il rapporto tra prezzo naturale e prezzo di mercato? In altre parole, la differenza tra il valore della merce espressa in moneta che sarebbe la quantità di tempo di lavoro necessaria alla produzione della merce, in moneta, e il prezzo di mercato?

In media il prezzo di mercato coincide con il prezzo naturale, ovvero al netto delle oscillazioni che possono avvenire a causa della domanda e dell’offerta, il prezzo di mercato della merce è il prezzo naturale. Il prezzo di mercato esprime soltanto la quantità media di lavoro sociale necessario, in condizioni medie di produzione, per fornire al mercato una certa quantità di un determinato articolo.  

Scrive Adam Smith, che Marx riprende: "Il prezzo naturale è, in un certo senso, il centro attorno al quale gravitano continuamente i prezzi di tutte le merci. Diverse circostanze possono talvolta tenerli molto più alti, talvolta spingerli alquanto più in basso. Ma quali che possano essere gli ostacoli che impediscono loro di fissarsi su questo punto medio di calma e di stabilità, essi tendono costantemente ad esso."

In media, e nel lungo periodo, domanda e offerta tendono all’equilibrio, e ciò implica che i prezzi di mercato delle merci tendono ai prezzi naturali, ovvero ai valori, ovvero alla quantità di tempo di lavoro necessaria alla loro produzione. I periodi in cui avviene una compensazione domanda-offerta dipende dalla tipologia di merce.

 

Ultima modifica ilLunedì, 04 Novembre 2024 20:53
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