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Partito Comunista e cellula di produzione. Per una struttura organizzativa rivoluzionaria
di Fosco Giannini, direttore di "Cumpanis"
Il 7 luglio del 1973 moriva Pietro Secchia, uno dei più grandi dirigenti del movimento comunista italiano ed europeo. Fu uno dei leader più grandi ed amati della Guerra di Liberazione, della Resistenza Partigiana, il capo del Vento del Nord, con tutta la spinta e la forza rivoluzionaria che il Vento del Nord aveva entro sé. Proletario, operaio, aderì al PCI sin dal 1921. Per aver pubblicamente attaccato Mussolini ed il regime fascista, nel 1931 fu arrestato e nel 1932 condannato a 17 anni e 9 mesi di reclusione dal Tribunale Speciale.
Fu, dopo Togliatti, il numero due del PCI, il Vicesegretario Nazionale. Nel 1954 - pagina oscura della storia del PCI - fu allontanato dagli incarichi ed emarginato, all'interno del Partito. Per emarginarlo e batterlo politicamente Togliatti utilizzò "la strana coppia" Cossutta-Rossanda, un "doppio" ideologicamente lontano che si riuniva, attraverso la lotta contro Secchia, nell'antileninismo. Uno strano evento, la coppia Cossutta-Rossanda e la sua lotta contro Secchia, da utilizzare come una lente d'ingrandimento per la decodificazione dell'intera storia del PCI, della sua involuzione, della sua fine.
Secchia fu accantonato nel Partito, ma la sua figura di rivoluzionario, la sua densità umana e politica, il suo carisma rimasero nell'animo e nelle coscienze politiche della sua generazione e delle giovani generazioni del '68. Ed oltre, sino ai comunisti italiani odierni.
Arnaldo Bera (Soresina, 1915-1999), partigiano col nome di battaglia "Luciano", responsabile militare nel cremonese e poi comandante della Brigata Partigiana "Ferruccio Ghinaglia", torturato dai fascisti senza che mai una parola gli uscisse a tradire i suoi compagni di lotta, era uno di quei rivoluzionari d'acciaio che formavano, assieme ad Alessandro Vaia ed altri, l'area "secchiana" nel PCI. Un'area tutta emarginata assieme al leader. E anche qui: storia da studiare, storia che può portare alla "mutazione genetica" del PCI.
Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Arnaldo Bera. Una sera Bera venne a cena a casa mia, ad Ancona, per un'iniziativa di "Interstampa", giornale leninista che si batteva contro la "mutazione genetica" del PCI. E mentre versava il vino rosso nella minestra ("impara: così fanno i contadini della mia terra"), mi raccontò di Secchia: "Inutilmente lo hanno emarginato. Il suo valore rivoluzionario non si è mai spento, come uno spettro si è aggirato e s'aggira tra i giovani e gli operai. Il suo internazionalismo, il suo valore di combattente partigiano ha travalicato gli oceani. Nel gennaio del 1972 fu chiamato in Cile da Salvador Allende, per il sostegno al governo rivoluzionario. Pietro tenne un grande comizio a Santiago, di fronte ad una piazza piena di comunisti, socialisti e di popolo. Avvertì il popolo cileno e i partiti dell'Izquierda Unida che la CIA, le forze reazionarie cilene, l'esercito cileno avrebbero tentato il "golpe" contro il governo Allende e chiese al popolo, ai comunisti, ai socialisti di prepararsi alla resistenza, alla difesa armata della rivoluzione". "Nel viaggio in aereo di ritorno in Italia - continuò Arnaldo Bera - fu avvelenato dalla CIA e morì dopo molte sofferenze il 7 luglio del 1973".
Ogni comunista, ogni rivoluzionario dovrebbe leggere e studiare la vita e le opere politiche di Secchia. Compresi i suoi interventi in Parlamento, poiché pochi come Secchia hanno saputo assumere la lezione di Lenin: "trasformare il parlamento borghese in cassa di risonanza della lotta di classe".
Qui, vogliamo ricordare solo una parte, ma centrale, dell'azione politica di Pietro Secchia, quella che portò avanti da Responsabile dell'Organizzazione del PCI dal 1946 al 1954, anno della sua emarginazione.
Da capo dell'Organizzazione Secchia portò il PCI a dotarsi, oltreché di sezioni in ogni città e in ogni paese ed un esercito di iscritti e militanti, di ben 56mila cellule di produzione, 56mila organizzazioni del Partito nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di studio, per un partito organizzato e radicato all'interno stesso del conflitto capitale/lavoro. Un'immensa struttura, di concezione leninista e gramsciana, per un partito comunista presente, innanzitutto, oltreché nelle sezioni territoriali, nei luoghi di lavoro.
Ciò che accadde è che con l'allontanamento di Secchia dall'Organizzazione (responsabili ne furono poi Amendola, Berlinguer, Macaluso e Fassino) iniziò pian piano una parabola organizzativa, politica, teorica che allontanò il PCI dalla prassi e dalla concezione leninista e gramsciana del Partito, sfociando nella fine stessa (anni '70) dell'organizzazione in cellule di produzione. Il ritorno della sezione territoriale ad unica opzione organizzativa praticata riportò il PCI alla forma organizzativa "secondo internazionalista", alla forma partito delle organizzazioni socialiste precedenti Lenin e la Terza Internazionale.
Ripercorrendo la storia del PCI, possiamo a ragione affermare che la parabola involutiva dell'organizzazione post secchiana può esattamente sovrapporsi, accompagnandola, alla stessa parabola involutiva del PCI, quella parabola che porta agli "strappi" di Berlinguer, alla "Bolognina" di Occhetto e poi allo scioglimento stesso del PCI.
Così che non è retorico affermare che, fatto fuori Secchia, inizia quella lenta ma inesorabile fuoriuscita del PCI dal leninismo e poi dallo stesso comunismo.
La mutazione genetica del PCI non è solo addebitabile, certo, all'estromissione di Secchia e della sua area rivoluzionaria dalla direzione del Partito. Ma certo è che l'emarginazione di Secchia, Vaia, Alberganti, Bera e di tutta l'area secchiana dal gruppo dirigente del PCI nei primi anni '50 dà la stura al cambiamento di natura politica e teorica del Partito.
È per questo che oggi, 7 luglio, giorno della morte del compagno Pietro Secchia, nel 1973, noi non solo ricordiamo la grandezza di un rivoluzionario, ma anche la grandezza di un progetto rivoluzionario che prendeva corpo anche, e soprattutto, nella forma di un partito rivoluzionario.
Dedichiamo, dunque, questo nostro articolo a Pietro Secchia.
Che cos’è la cellula di produzione? Qual è la sua storia? Qual è la sua valenza teorica, politica e ideologica?
Diciamo subito che vi è uno scarto enorme tra l’importanza pratica e la densità politico-teorica di questa opzione organizzativa, la cellula di produzione, e la consapevolezza di tale importanza nella cultura politica di molti – troppi – dirigenti e militanti comunisti di questa fase. Cioè: la consapevolezza è scarsa, ed è figlia dell’ultimo scorcio storico italiano del movimento comunista. E vi è anche uno scarto tra l’importanza della cellula di produzione e una pratica organizzativa che da diversi decenni (dal PCI della fine degli anni ’70 in poi sino al PRC e al PdCI) ha teso a sottovalutarla, ad emarginarla, ad escluderla. Sino al punto che, nell’ultimo PCI, nel PRC e nel PdCI, di fatto e al di là di tenui richiami statutari, la cellula comunista nei luoghi della produzione e dello studio non si è più organizzata; non è più apparsa nell’organizzazione dei partiti comunisti e nel conflitto di classe in misura significativa. Dalla fine degli anni ’70 in poi l’opzione leninista e gramsciana della cellula di produzione è di fatto scomparsa nella pratica organizzativa, dal PCI al PdCI, passando per Rifondazione Comunista.
Prima questione: si deve addebitare tale scomparsa ad una mutazione dei modelli produttivi del capitalismo italiano o tale scomparsa è invece addebitabile a mutazioni avvenute, piuttosto, nella sfera politica, teorica e ideologica dei partiti comunisti citati? Non vi sono dubbi: la scomparsa della cellula di produzione è completamente addebitabile alla mutazione teorica e ideologica di queste ultime esperienze comuniste. Sosteniamo, anzi, che la mutazione dei modelli produttivi poteva – e può – persino favorire una ripresa dell’organizzazione comunista in cellule di produzione e di studio (nelle scuole, nelle università). Se, infatti, il nuovo quadro produttivo generale è caratterizzato da una compresenza di aggregati produttivi larghi (fabbriche, ferrovie, poste, ospedali, cantieri navali ecc.) e molecolarizzazione produttiva, è del tutto evidente che la cellula comunista di produzione può – per la sua natura di opzione organizzativa minuta e dinamica – agire al meglio sia in una struttura organizzativa larga che in una struttura molecolare. A condizione che vi sia una forte, determinata, consapevole spinta “dall’alto” (dai gruppi dirigenti del Partito Comunista, dalla sua linea politica e organizzativa) a far sì che ciò avvenga.
Ma qual è la storia della cellula di produzione, di questa rivoluzionaria struttura organizzativa comunista?
Iniziamo dalla sezione territoriale: questa forma organizzativa, la sezione, appunto, è l’unica forma organizzativa conosciuta – e praticata – dai partiti socialisti, dai partiti della II Internazionale.
La sezione territoriale è mutuata, in Italia, dalla socialdemocrazia tedesca e – dal III Congresso Nazionale del PSI (Parma, 1895) – è assunta come struttura portante dello stesso PSI. Dirà Lenin, ma anche, più avanti, il grande storico dei partiti, Maurice Duverger, che essa, la sezione, quale unica opzione organizzativa socialista, assume il carattere di forma organizzativa volta essenzialmente all’iniziativa propagandistica ed elettoralistica.
La sezione territoriale rimane l’unica e sola forma organizzativa della II Internazionale sino all’elaborazione sulle forme organizzative sviluppata da Lenin e poi introdotta in Italia da Antonio Gramsci, che come forma organizzativa (ancora non pienamente esplicitata) la cellula comunista di produzione l’anticipa nella sua riflessione “ordinovista” e nell’esperienza torinese dei consigli di fabbrica.
Ma in quali fasi, attraverso quali passaggi Lenin, per la prima volta nel pensiero rivoluzionario, la elabora e la propone? Lenin inizia ad evocare una nuova forma organizzativa (che rimanda al più maturo progetto dell’organizzazione comunista in cellule di produzione) nel saggio “Che fare?”, del 1902, nella parte dedicata alle questioni organizzative del partito rivoluzionario.
Sarà poi a Zimmerwald, negli incontri delle ali di sinistra dei partiti socialisti del 1915 e del 1916, che Lenin introduce con forza la questione della cellula di produzione – ed essenzialmente la questione della rottura col modello organizzativo socialista e riformista – nel dibattito tra socialisti e comunisti. È del tutto evidente che il dibattito aperto da Lenin sulle forme organizzative rivoluzionarie in contrapposizione alle tradizionali forme organizzative socialiste è speculare al dibattito aperto dallo stesso Lenin sulla questione generale della rottura, da parte dei comunisti, con la II Internazionale, come è evidente che l’innovazione comunista sul piano organizzativo – le cellule di produzione – è consustanziale alla stessa rottura dei comunisti con i partiti socialisti e riformisti.
Nell’incontro di Zimmerwald del 1915, dove si svolge la Conferenza Internazionale delle ali di sinistra dei partiti socialisti in relazione alla Prima Guerra Mondiale (nella quale Conferenza Lenin lancia la famosa, e felice, per la Rivoluzione d’Ottobre, parola d’ordine “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, mentre i centristi affermano “né aderire né sabotare” e Trotzki lancia la parola d’ordine moderata “ Pace senza annessioni”) Lenin inizia a contrapporre alla tradizione organizzativa socialista il disegno di un partito rivoluzionario che si radichi soprattutto dentro le fabbriche e nei luoghi di lavoro, prioritariamente nei luoghi del conflitto. E sarà nella successiva Conferenza di Zimmerwald (1916) che Lenin romperà ancor più profondamente con la concezione organizzativa socialista definendo ancor più precisamente, sul piano anche teorico, il modello organizzativo rivoluzionario.
L’elaborazione leninista in relazione all’opzione organizzativa in cellule di produzione prende corpo tra il I° Congresso dell’Internazionale Comunista, tenutosi a Mosca nel marzo del 1919 e il II° Congresso, tenutosi tra il 19 luglio e il 7 agosto del 1920 a Pietrogrado e Mosca. Anche se tale elaborazione si pone a cavallo tra il I° e il II° Congresso, è in quest’ultimo che essa assume tutto il suo densissimo spessore teorico e politico. D’altra parte, il II° Congresso, quello del 1920 – considerato una sorta di “Manifesto generale del Comunismo” – è l’Assise nella quale il leninismo vincente chiede con forza ai socialisti di liberarsi dei retaggi e delle componenti riformiste e costruire – attraverso i famosi e impegnativi “21 punti” – i partiti comunisti. In quest’ottica forte è anche la richiesta, da parte di Lenin e rivolta ai socialisti che rompono con il riformismo, di superare l’organizzazione socialista classica, imperniata solo sulla sezione territoriale, e assumere l’organizzazione comunista, terzinternazionalista e rivoluzionaria, imperniata sulla cellula comunista di produzione.
Su “L’Unità” del 28 luglio del 1925 Antonio Gramsci, in un articolo dal significativo titolo “L’organizzazione per cellule e il II° Congresso mondiale”, cita un passaggio di un intervento di Lenin svolto, appunto, al II° Congresso dell’Internazionale Comunista (oggi rintracciabile nelle Opere Complete di Lenin, Editori Riuniti). E afferma il Lenin citato da Gramsci: “In tutte le organizzazioni, leghe, associazioni, nessuna esclusa, anzitutto in quelle proletarie, ma poi anche in quelle delle masse lavoratrici e sfruttate non proletarie (politiche, sindacali, militari, cooperative, educative, sportive, ecc. ecc.) si devono costituire dei gruppi o delle cellule comuniste, di preferenza legali, ma anche clandestine, come si impone ogni volta che sia prevedibile il loro scioglimento, l’arresto o l’espulsione dei loro membri da parte della borghesia. Queste cellule, strettamente legate tra loro e con il centro del partito, scambiandosi i risultati della loro esperienza, svolgendo il lavoro di agitazione, propaganda e organizzazione, intervenendo energicamente in tutti i campi della vita sociale, lavorando su tutte le diverse categorie in cui si suddividono le masse lavoratrici, devono educare sistematicamente, per mezzo di quest’azione molteplice, il partito, le masse e la classe”.
Il progetto leninista dell’organizzazione rivoluzionaria costruita direttamente nei luoghi del conflitto capitale-lavoro, nello spirito e nella lettera del I° e soprattutto del II° Congresso dell’Internazionale Comunista, si propone come un’anticipazione stessa dello Stato proletario di forma sovietica, basato cioè sui Soviet, considerabili – da questo punto di vista – lo sviluppo dell’organizzazione proletaria del potere socialista nel tempo della lotta di classe all’interno del potere capitalista. Le cellule di produzione, dunque, come prodromi dello stesso potere rivoluzionario, dello stesso rapporto, dopo la presa del potere, tra stato e masse. Un progetto che Yuri Andropov, l’ultimo leninista dell’Unione Sovietica, aveva tentato di rilanciare, prima della catastrofe “gorbacioviana”. L’organizzazione comunista di base, nel tempo della lotta anticapitalista, evoca il futuro assetto statuale leninista e sovietico. Tra cellule di produzione e Soviet vi è una continuità organizzativa, politica e ideologica.
Lenin affronterà gli aspetti organizzativi relazionabili alla cellula di produzione anche in “Stato e Rivoluzione”, del 1917. E attraverso il dibattito politico – teorico sulle forme organizzative sviluppato nei Congressi di Zimmerwald; attraverso le analisi del “Che fare?” e quelle interne a “Stato e Rivoluzione”, il leader della Rivoluzione d’Ottobre mette a fuoco il valore rivoluzionario della forma organizzativa comunista costruita direttamente nei luoghi del conflitto primario capitale-lavoro, attuando così una rottura netta con la concezione organizzativa dei partiti socialisti, cristallizzatasi sulla sezione territoriale.
Ma come analizzava Lenin la sezione territoriale? Non ne negava il ruolo e la funzione, ma ne metteva in luce i limiti. E rimarcava il fatto, innanzitutto, che essa è un luogo avulso dal conflitto capitale lavoro. In essa convergono, proprio per la sua natura avulsa, operai, contadini, avvocati, intellettuali, piccola borghesia ed esponenti stessi della cultura dominante e – persino – della classe dominante. Per questa convergenza interculturale e persino interclassista, forte è il rischio, nella sezione territoriale, che a dominare, infine, siano proprio gli esponenti del senso comune piccolo-borghese, i moderati, i riformisti, gli intellettuali lontani dal proletariato, dalla classe operaia, dai lavoratori. Chi ha vissuto – anche nei nostri giorni – la vita e il dibattito della sezione territoriale, può immaginare di cosa Lenin parlasse. La stessa compresenza di varie estrazioni sociali e di diverse culture politiche può trasformare la sezione territoriale nel luogo di costruzione di una linea politica di mediazione, una mediazione tra cultura rivoluzionaria e cultura riformista. Nella sezione – continuava Lenin – gli operai possono essere intimiditi dalla “parlantina” (questo era il termine esatto – semplice e potente – che usava Lenin per descrivere la capacità affabulatoria degli intellettuali) degli avvocati, dei professori, di chi più ha studiato, una capacità che poteva – e ancora può – ammutolire gli operai e i lavoratori, i militanti con meno capacità dialogiche. Gli operai e i lavoratori con meno “parlantina” possono essere egemonizzati, nel luogo avulso dal conflitto di classe. E questo stato concreto di cose può trasformare la sezione anche nel luogo politico della promozione di quadri- nella direzione del partito – più legati alla piccola borghesia intellettuale di sinistra che al proletariato comunista. Gli operai e i lavoratori possono soccombere, nel dibattito di sezione, di fronte alle capacità affabulatorie maggiori degli avvocati e dei professori, che possono con maggior possibilità, per questa via, dirigere il partito. Stesso rischio si corre per le cariche istituzionali, per l’elezione in Parlamento: possono più facilmente avanzare i quadri colti e non necessariamente dotati di posizioni di classe.
Altra è l’esperienza della cellula di produzione, dell’organizzazione del Partito Comunista nei luoghi stessi del conflitto: qui, gli operai, i lavoratori ( siano essi di fabbrica che di ogni altra azienda o posto di lavoro) danno il meglio di sé: nella lotta diretta contro il padrone, contro lo sfruttamento, per il salario, per i diritti, per la mensa, per le ferie, essi conquistano coscienza di classe, non sono intimiditi da presenze “superiori”; in quest’ambito essi si sentono il terminale stesso del Partito Comunista e nella lotta possono emergere anche come dirigenti del Partito, potendo così costituire nel Partito e per il Partito una spina dorsale dirigente di natura operaia e con radici nel mondo del lavoro. Possono, a partire dall’affermazione di sé nel contesto stesso della lotta di classe viva, proporsi quali esponenti del Partito Comunista anche nelle istituzioni, sino al Parlamento. E abbiamo imparato dall’esperienza concreta quanto ciò possa contare, di fronte al fatto che il Parlamento, anche tra le fila di sinistra e comuniste, è quasi vuoto di operai e lavoratori e di fronte al fatto che tanti eletti “di sinistra” e “comunisti” abbiano subito la sindrome del voltagabbana, o abbiano lasciato il Partito appena eletti. Certo – aggiungeva Lenin – occorre che assieme alla lotta gli operai abbiano la possibilità di essere legati all’avanguardia rappresentata dal Partito stesso, essere “prodotti” politici e ideologici del Partito d’avanguardia. Occorre che assieme alla lotta vi sia, per i lavoratori comunisti la possibilità di studiare; occorre, dunque, la scuola di Partito, la scuola-quadri, un’esperienza anch’essa abbandonata dalle ultime esperienze comuniste italiane, dall’ultimo PCI, dal PRC e dal PdCI. Scuole che, dunque, devono tornare a svolgere il loro ruolo centrale, per la costruzione di un nuovo e più forte Partito Comunista.
Sarà poi Antonio Gramsci a riprendere e rilanciare, in Italia, le tesi leniniste sull’organizzazione. Ma occorrerà del tempo, e una battaglia politica e teorica molto aspra e dura, per far assumere nel PCd’I le tesi leniniste sull’organizzazione calata direttamente nei luoghi del conflitto capitale-lavoro.
Durante la direzione bordighiana sul PCd’I (dal 1921 al 1924) la sezione territoriale rimane la forma organizzativa fondamentale del Partito Comunista, e il vero e proprio cambiamento della struttura organizzativa bordighiana (mutuata in toto dal PSI) si avrà con la fase di bolscevizzazione, di comunistizzazione del PCd’I, che coinciderà con la direzione di Antonio Gramsci (1924-1926).
Nelle Tesi di Lione, infatti, un ruolo centrale viene affidato all’istanza organizzativa leninista e dalle Tesi di Lione in poi la cellula di produzione, la concezione di un partito rivoluzionario, comunista, collocato innanzitutto nei luoghi del conflitto capitale-lavoro, prevarrà. Prevarrà con Gramsci.
Bordiga, che si era opposto alla linea gramsciana dell’Ordine Nuovo volta alla costruzione dei Consigli di fabbrica e del Partito Comunista quale soggetto protagonista della costruzione dei Consigli, rinuncia anche all’innovativa forma leninista delle cellule di produzione.
Va notato come queste due negazioni bordighiane rispondano entrambe ad un’inclinazione (essenzialmente massimalista e segnate da elementi trotzkisti) secondo la quale il tempo lungo speso per l’organizzazione nei luoghi di lavoro è tempo sottratto al processo rivoluzionario: ed è chiaro come il pensiero secondinternazionalista (volto alla negazione della forma organizzativa leninista) si saldi qui al massimalismo di tipo bordighista e trotzkista.
Infatti, sia contro Serrati che contro Bordiga, Gramsci deve sostenere una dura battaglia politico-teorica per vincere e far passare la linea leninista sull’organizzazione.
Crediamo sia davvero opportuno, per sistematizzare la discussione e mettere in luce la profonda diversità del pensiero gramsciano sull’organizzazione comunista, sia dai socialisti riformisti che dal massimalismo bordighista, ricordare qui i capitoli 29 e 30 delle Tesi di Lione:
La base dell’organizzazione del partito
Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici. La soluzione di essi deve rendere possibile al partito di attuare il suo compito fondamentale, di far acquistare al proletariato una completa indipendenza politica, di dargli una fisionomia, una personalità, una coscienza rivoluzionaria precisa, di impedire ogni infiltrazione e influenza disgregatrice di classi ed elementi i quali pur avendo interessi contrari al capitalismo non vogliono condurre la lotta contro di esso fino alle sue conseguenze ultime. In prima linea è un problema politico: quello della base della organizzazione. La organizzazione del partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del luogo di lavoro (cellule).
Questo principio è essenziale per la creazione di un partito “bolscevico”. Esso dipende dal fatto che il partito deve essere attrezzato per dirigere il movimento di massa della classe operaia, la quale viene naturalmente unificata dallo sviluppo del capitalismo secondo il processo della produzione. Ponendo la base organizzativa nel luogo della produzione il partito compie un atto di scelta della classe sulla quale esso si basa. Esso proclama di essere un partito di classe e il partito di una sola classe, la classe operaia. Tutte le obiezioni al principio che pone la organizzazione del partito sulla base della produzione partono da concezioni che sono legate a classi estranee al proletariato, anche se sono presentate da compagni e gruppi che si dicono di “estrema sinistra”. Esse si basano sopra una considerazione pessimista delle capacità rivoluzionarie dell’operaio comunista, e sono espressione dello spirito antiproletario del piccolo-borghese intellettuale, il quale crede di essere il sale della terra e vede nell’operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione. Si riproducono nel partito italiano a proposito delle cellule la discussione e il contrasto che portarono in Russia alla scissione tra bolscevichi e menscevichi a proposito del medesimo problema della scelta della classe, del carattere di classe del partito e del modo di adesione al partito di elementi non proletari.
Questo fatto ha del resto, in relazione con la situazione italiana, una importanza notevole. È la stessa struttura sociale e sono le condizioni e le tradizioni della lotta politica quelle che rendono in Italia assai più serio che altrove il pericolo di edificare il partito in base a una “sintesi” di elementi eterogenei, cioè di aprire in essi la via alla influenza paralizzatrice di altre classi. Si tratta di un pericolo che sarà inoltre reso sempre più grave dalla stessa politica del fascismo, che spingerà sul terreno rivoluzionario intieri strati della piccola borghesia. È certo che il Partito comunista non può essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un’altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo.
Così pure il Partito comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame politico tra il proletariato e le classi rurali. Ma è da respingere energicamente, come controrivoluzionaria, ogni concessione che faccia del partito una “sintesi” di elementi eterogenei, invece di sostenere senza concessioni di sorta che esso è una parte del proletariato, che il proletariato deve dargli la impronta della organizzazione che gli è propria e che al proletariato deve essere garantita nel partito stesso una funzione direttiva.
Non hanno consistenza le obiezioni pratiche alla organizzazione sulla base della produzione (cellule), secondo le quali questa struttura organizzativa non permetterebbe di superare la concorrenza tra diverse categorie di operai e darebbe il partito in balia al funzionarismo. La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di “aristocrazia operaia”.
La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice. Il partito deve dedicare una cura particolare alla educazione di questi compagni che formano il tessuto connettivo della organizzazione e sono lo strumento del collegamento con le masse. Da qualsiasi punto di vista venga considerata, la trasformazione della struttura sulla base della produzione rimane compito fondamentale del partito nel momento presente e mezzo per la soluzione dei più importanti suoi problemi. Si deve insistere in essa e intensificare tutto il lavoro ideologico e pratico che ad essa è relativo.
Arriviamo al 1944, al “Partito Nuovo” lanciato da Palmiro Togliatti. Possiamo dire, in estrema sintesi, che Togliatti propone un rapporto positivamente dialettico, per ciò che riguarda l’impianto organizzativo del PCI, tra cellule di produzione e sezione territoriale. Con la cellula Togliatti recupera il valore rivoluzionario della concezione leninista e gramsciana del Partito Comunista. Con la sezione territoriale si pone il problema della costruzione del Partito degli operai e del popolo, un Partito di massa, attrezzato, nel nuovo quadro mondiale successivo alla Seconda Guerra Mondiale e successivo al Patto di Yalta, ad una lunga battaglia sociale e politica. Togliatti punta – per i tempi lunghi della battaglia per la trasformazione socialista in Italia – ad un radicamento politico, sociale e culturale profondo e ad un consenso elettorale e popolare di massa. Sul piano organizzativo il rapporto dialettico tra organizzazione del Partito nei luoghi di lavoro e ampliamento del consenso popolare attraverso la sezione territoriale è una scelta vincente e totalmente rispondente al progetto e alla strategia togliattiana. E’ sintomatica, a questo proposito, un’affermazione di Togliatti degli anni ’50: “Costruire un Partito bolscevico di massa”.
Nel Partito togliattiano che rimane tale anche dopo la morte di Togliatti (approssimativamente sino alla fine degli anni ’60), la cellula di produzione rimane un’istanza organizzativa centrale. Nella Conferenza di Organizzazione di Napoli (1944) nelle “Norme provvisorie per l’organizzazione del PCI”, all’articolo 26, si dice: “Il Congresso di sezione si fa con i rappresentanti delle cellule”. E l’iscrizione al Partito si fa – in questa fase – nelle cellule, non nelle sezioni territoriali.
Dal 1946 al 1954 il responsabile nazionale dell’Organizzazione del PCI è Pietro Secchia (nominato da Togliatti, nel 1948, anche vice-segretario nazionale del PCI). Con Secchia l’organizzazione del PCI tocca il suo culmine. Nel 1951, al VII Congresso del PCI, la cellula assurge pienamente a quella funzione cardinale prevista dal partito leninista e gramsciano e diviene funzionale al “Partito Nuovo” di Togliatti, un partito di classe e, insieme, popolare, costruito nei luoghi di lavoro e nelle sezioni territoriali, in un connubio organizzativo volto a sorreggere una linea e una prassi di massa. Nel 1954, ancora sotto la direzione organizzativa di Pietro Secchia, il PCI può contare su 2.145.285 iscritti; su 56.934 cellule (ogni cellula varia in numero; vi sono anche cellule vaste e l’insieme delle cellule costituiscono un vero e proprio partito operaio nel partito) e su 11. 146 sezioni.
Dopo Secchia viene chiamato a dirigere l’Organizzazione Giorgio Amendola (il grande dirigente comunista che sarebbe poi divenuto il capo della corrente socialdemocratica interna al PCI, un’inclinazione politico-teorica, quella socialdemocratica di Amendola, che avrebbe segnato di sé anche l’involuzione in senso secondinternazionalsita dell’organizzazione del PCI). Dopo Amendola, all’Organizzazione, vengono poi chiamati Enrico Berlinguer, Emanuele Macaluso e Piero Fassino, dirigenti che attenuano, a mano a mano, l’impianto leninista e gramsciano della struttura organizzativa del Partito.
Dopo l’emarginazione di Pietro Secchia e il superamento graduale del partito togliattiano (operaio e di popolo) che dialettizzava al meglio il ruolo delle cellule e della forma partito leninista e gramsciana con l’apertura alle masse incentrata anche nella funzione della sezione territoriale, assistiamo ad un lungo processo di fuoriuscita dall’organizzazione rivoluzionaria e di sostanziale ritorno all’organizzazione di tipo secondinternazionalista e socialista. Nel 1955 (nel Partito ancora fondamentalmente secchiano e togliattiano) le cellule di produzione sono 57 mila; calano a 37 mila nel 1950, sino a giungere a 16 mila nel 1971, per poi pian piano sparire persino dai dati statistici forniti dal Partito.
Ciò che si può onestamente affermare – a ragion veduta – è che la destrutturazione del partito leninista e gramsciano rappresenta una parabola perfettamente sovrapponibile (e costituitasi nel tempo) alla parabola politico – teorica di socialdemocratizzazione del PCI. Le due involuzioni compiono parallelamente la stessa strada. L’involuzione, sul piano politico e teorico, socialdemocratica del PCI segna di sé l’involuzione organizzativa. E viceversa.
Successivamente, negli statuti del PRC e anche del PdCI non sono mancati riferimenti alle cellule di produzione. Ma quel tipo di organizzazione non è stata più ripresa, se non in piccolissime e non significative esperienze. Crediamo che il problema, come dicevamo sin dall’inizio, non stia tanto nella mutazione dei processi produttivi capitalistici italiani, quanto in una perdita, in una dissipazione, della memoria e della cultura comunista e rivoluzionaria. Stia, soprattutto, in una perdita della cultura leninista e gramsciana, che è riscontrabile in molti altri aspetti del pensiero e della pratica politica dell’esperienza comunista, precedente e successiva alla “Bolognina”.
Ricostruire un’organizzazione comunista conseguente (antimperialista, internazionalista, che cerchi l’organizzazione del consenso soprattutto sulla base materiale del conflitto di classe e non su altre scorciatoie politiciste o solamente istituzionaliste, non sarà facile, dopo i troppi strappi dalla cultura comunista e dal progetto di trasformazione sociale in senso socialista. Avremo bisogno di tempo, ma non abbiamo alternative. La ricostruzione di un Partito Comunista non può passare che attraverso una creativa attualizzazione – senza dogmi, ma anche senza i facili liquidazionismi “bertinottiani” - del pensiero e della prassi dell’intera storia comunista internazionale.
Affermavano Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni – in tandem – che “tutti gli intellettuali e i dirigenti comunisti del ‘900 sono morti e non solo fisicamente”. E vivi erano rimasti solo Bertinotti e Gianni.
Noi dobbiamo avere un approccio esattamente contrario e dobbiamo mettere a valore il grande pensiero e la grande storia della prassi del movimento comunista mondiale. Non abbiamo ricette estraibili dalla nostra storia e immediatamente adattabili al nostro nuovo contesto, ma le analisi di Lenin e Gramsci sull’organizzazione possono tuttora esserci di grande aiuto e sarebbe paradossale che – sul piano organizzativo – trascurassimo i progetti teorici e pratici più avanzati per rifugiarci pigramente e dogmaticamente in esperienze ancora più antiche e moderate: quelle dell’Internazionale Socialista, e cioè organizzarci solo- come è avvenuto e ancora avviene – sulle sezioni territoriali. Uno dei problemi principali del movimento comunista italiano odierno è l’avvenuta erosione dei legami di massa. Da qui occorre ripartire, per recuperare radicamento, credibilità e legami con il movimento operaio complessivo; ripartire anche dalla nostra presenza attiva e di lotta all’interno stesso dei luoghi del conflitto capitale- lavoro, iniziando, per esempio, a decodificare i nuovi processi produttivi e cercare all’interno di essi quali siano quelli d’avanguardia, per costruire presenze comuniste organizzate di operai produttori di plus valore che – siano essi produttori di beni materiali o immateriali – diventino avanguardia sociale e politica nella misura in cui lavorano e lottano all’interno della produzione capitalistica d’avanguardia.
Riorganizzare il Partito nelle grandi fabbriche, nei cantieri, negli uffici, nelle università è possibile, come è possibile lavorare per una presenza organizzata, anche di 2/3 compagni, in un luogo di lavoro atomizzato. Dobbiamo rimboccarci le maniche e iniziare a capire che se la stessa energia che, giustamente, dedichiamo all’impegno elettorale la dedicassimo all’organizzazione del partito nei luoghi di lavoro, qualche obiettivo lo coglieremmo. Sarebbe sbagliato attribuire l’ormai assoluta assenza dei comunisti nei luoghi diretti del conflitto capitale – lavoro ai mutamenti dei processi produttivi, rimuovendo il fatto storico pesantemente rappresentato da un’involuzione politico – teorica tendente a rimuovere dalla prassi il progetto organizzativo leninista e gramsciano.
Sulla scorta del grande pensiero rivoluzionario che ci sta alle spalle e sull’analisi concreta della situazione concreta dobbiamo trovare le vie giuste. Sapendo che senza l’organizzazione comunista – come dimostra la stessa parabola involutiva del PCI – non vi è nemmeno il Partito Comunista.