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Gramsci: l'obbrobriosa manipolazione ai danni di un grande rivoluzionario
di Amedeo Curatoli
Il grande comunista di cui parliamo è Antonio Gramsci, leninista della prima ora, leninista nel senso di fautore della lotta armata come unico mezzo per rovesciare la dittatura borghese. In Cina nel 1983 la Casa editrice del Popolo ha pubblicato i Quaderni del Carcere. In una successiva antologia di scritti gramsciani (1992) si dice: “Gramsci fu il teorico della rivoluzione proletaria in Italia e applicò con reale impegno il marxismo-leninismo in Italia”.
Sì, Gramsci fu questo. Egli capì immediatamente la rivoluzione russa, e capì profondamente la linea di Lenin prima che i bolscevichi prendessero il potere. Appoggiò e propagandò questa linea nei suoi articoli sul Grido del popolo e sull’Avanti (sezione torinese).
Quando, il 13 agosto 1917 il governo provvisorio di Kerensky inviò in Italia suoi rappresentanti, Gramsci organizzò a Torino una manifestazione di massa con 40.000 dimostranti che gridavano a gran voce lo slogan: "viva Lenin!". Lo stesso accadeva a Firenze, Milano, Bologna.
La settimana successiva lo sciopero iniziato in alcune fabbriche si trasformò in sciopero generale insurrezionale. L’esercito dovette usare i carri armati e le mitragliatrici pesanti per domarlo. Rimasero sul terreno della battaglia 21 lavoratori uccisi. Gli operai insorti riuscirono ad abbattere solo tre poliziotti, vi furono centinaia di feriti e 1500 arresti.
Gramsci aveva allora 26 anni e fu in quel grandioso clima rivoluzionario che si formò come dirigente leninista. La marea rivoluzionaria continuava a salire, fino a giungere, a Torino, all’occupazione generalizzata delle fabbriche dove gli operai si asserragliavano armati di tutto punto e pronti allo scontro finale contro il capitalismo e contro il dominio borghese.
Il Primo Maggio del 1919 Gramsci fondò il settimanale L’Ordine Nuovo che gettava benzina sul fuoco. I riformisti del suo partito (militava nel Psi) lo temevano, e lo temeva anche il governo, che sottoponeva a censura i suoi scritti. Quello che passerà alla storia col nome di Biennio Rosso (1919-1920) fu contemporaneo all’instaurazione della Repubblica Sovietica in Ungheria e seguì di poco la Rivoluzione tedesca del 1918; c’era in Europa un fermento rivoluzionario dappertutto.
Sulle cause della sconfitta del Biennio Rosso e dell’ascesa del fascismo citeremo fra poco un documento della III Internazionale Comunista.
Il 16 maggio del 1925, in qualità di parlamentare, e già capo riconosciuto e temuto dalla reazione (aveva trentaquattro anni) Gramsci pronunziò alla Camera un discorso antifascista eroico e commovente.
Tutti i deputati fascisti e lo stesso Mussolini lo interruppero continuamente per tentare di spezzare il filo del suo ragionamento, ma non vi riuscirono. Egli concluse questo suo primo intervento rivoluzionario dalla tribuna parlamentare (che fu anche l’ultimo) con le seguenti parole: “Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi”.
Parole profetiche che i marxisti leninisti considerano il testamento e l’impegno per la futura rivoluzione proletaria in Italia.
L’anno successivo (1926), le tesi politiche scritte da Gramsci per il Congresso clandestino tenuto a Lione (che fu il 3° dopo quello costitutivo di Livorno nel 21 e di Roma nel ’22), raccolsero la quasi unanimità se si eccettua un 9,2% che andò ai bordighisti. Erano tesi integralmente marxiste leniniste. Gramsci intervenne contro l’estremismo dogmatico di Bordiga: "In nessun paese -disse- il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sue sole forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese”. Egli parlava da grande leninista.
L’analisi più autenticamente vera, cioè marxista, delle condizioni storiche dell’Italia del primo dopoguerra e della mancata vittoria della rivoluzione la fece, nel 1922, il 4° Congresso dell’Internazionale Comunista. Riportiamo alcuni brani di quella meravigliosa analisi:
“Verso la fine della guerra imperialista mondiale la situazione in Italia era oggettivamente rivoluzionaria. La borghesia aveva allentato le redini del potere. L’apparato dello Stato borghese era scosso, l’inquietudine s’era impossessata della classe dominante. Le masse operaie erano stanche della guerra tanto che in diverse regioni esse si trovavano già in uno stato insurrezionale. Considerevoli settori della classe contadina cominciavano a sollevarsi contro i proprietari terrieri e contro lo Stato, ed erano disposti a sostenere la classe operaia nella sua lotta rivoluzionaria. I soldati erano contro la guerra e pronti a fraternizzare con gli operai. Si erano dunque realizzate le condizioni oggettive per una rivoluzione vittoriosa. Mancava soltanto il fattore soggettivo; mancava un partito operaio deciso, pronto al combattimento, cosciente della sua forza, rivoluzionario, in una parola: un vero Partito Comunista. (...)
"In generale, alla fine della guerra esisteva un’analoga situazione in quasi tutti i paesi belligeranti. Se la classe operaia non ha trionfato nei paesi più importanti, la cosa si spiega proprio a causa dell’assenza di un partito operaio rivoluzionario. È ciò che si è manifestato con maggiore evidenza proprio in Italia, paese che era il più prossimo alla rivoluzione e che ora sta attraversando un periodo di controrivoluzione". (...)
"L’occupazione delle fabbriche da parte degli operai italiani, nell’autunno del 1920, ha costituito un momento decisivo nello sviluppo della lotta di classe in Italia. Istintivamente, gli operai italiani spingevano verso la soluzione della crisi in un senso rivoluzionario. Ma l’assenza di un partito operaio rivoluzionario decise le sorti della classe operaia, consacrò la sconfitta e preparò il trionfo attuale del fascismo. La classe operaia non ha saputo trovare forze sufficienti nel momento culminante del suo movimento per impossessarsi del potere: ecco perché la borghesia, nelle sembianze del fascismo, la sua ala più energica, è riuscita ben presto a far mordere la polvere alla classe operaia e a stabilire la sua dittatura. In nessun luogo, la prova della grandezza del ruolo storico di un Partito Comunista per la rivoluzione mondiale è stata fornita in modo così chiaro come in Italia dove, proprio per la mancanza di un tale partito, il corso degli eventi ha assunto una piega favorevole alla borghesia”. (…).
” All’inizio del 1921 ci fu la rottura da parte della maggioranza del Partito Socialista con l'internazionale Comunista. A Livorno, il centro preferì separarsi dall’Internazionale Comunista e da 58.000 comunisti italiani, semplicemente per non rompere con 16.000 riformisti. Si costituirono due partiti: da una parte il giovane Partito Comunista che, malgrado tutto il suo coraggio e la devozione alla causa rivoluzionaria, era troppo debole per condurre la classe operaia alla vittoria, e dall’altra, il vecchio Partito Socialista nel quale, dopo Livorno, andava crescendo l’influenza corruttrice dei riformisti. La classe operaia era divisa e senza risorse. Con l’aiuto dei riformisti la borghesia consolidò le sue posizioni. Fu solo allora che cominciò l’offensiva del capitale sia in campo economico che politico. Occorsero quasi due interi anni di tradimento ininterrotto da parte dei riformisti perché anche i capi del centro, sotto la pressione delle masse, riconoscessero i loro errori e si dichiarassero pronti a trarne tutte le conseguenze”.
"Al Congresso di Roma, nell’ottobre 1922 i riformisti furono espulsi dal Partito Socialista. Qual è l’estrema sintesi di tale documento? Di questa triste ma istruttiva lezione degli avvenimenti d’Italia -prosegue il documento- devono trarre insegnamento gli operai coscienti di tutto il mondo.
1) Il riformista, ecco dove si annida il nemico.
2) Le esitazioni dei centristi costituiscono un pericolo mortale per un partito operaio.
3) La condizione più importante della vittoria del proletariato, è l’esistenza di un Partito Comunista cosciente e omogeneo.
Tali sono gli insegnamenti della tragedia italiana”.
E veniamo ora alle obbrobriose falsificazioni revisioniste di Gramsci. Paolo Spriano, storico del Pci (ma anche dirigente di quel partito) ha togliattianamente distinto il Gramsci pre-carcere (del quale non si poteva dire a cuor leggero che non fosse un rivoluzionario – a meno di non coprirsi di ridicolo) dal Gramsci prigioniero: “Ma è forse giusto prospettare un salto nell’elaborazione carceraria nella teoria della rivoluzione rispetto al periodo precedente” (prefazione a Scritti politici di Gramsci). Quindi il rivoluzionario sardo, che scriveva tesi leniniste sulla lotta armata e sulla necessità della dittatura del proletariato, dopo che è piombato nel buco nero del carcere fascista (in cui è stato torturato per 10 anni, fino alla morte) avrebbe fatto un “salto”, avrebbe cioè superato il leninismo e fondato una nuova teoria della rivoluzione.
Su che cosa poggerebbe questa presunta “nuova” teoria della rivoluzione? Sulle casematte, sull’egemonia, sulla distinzione fra “società civile” e Stato, cose che abbiamo sentito ripetere miliardi di volte, e che hanno fatto di Gramsci il nume tutelare della via togliattiana al “socialismo”. Orrenda falsità. Gramsci ha scritto in carcere 33 quaderni per un totale di 2400 pagine a stampa. Ha scritto di tutto, sui più disparati argomenti e in questo mare magnum di annotazioni hanno pescato a piene mani i togliattiani forzandone l’interpretazione, talvolta falsificandole, ed hanno avuto buon gioco (data l’immensità di questi appunti) a costringere il pensiero del grande rivoluzionario sardo nei limiti angusti (e miserabili) di una “nuova teoria della rivoluzione” che non era la “teoria” di Gramsci, ma quella di Togliatti, teoria che non aveva nulla di nuovo, ma era la riproposizione in termini nuovi rispetto alla vecchia socialdemocrazia, del tradimento del marxismo e della rivoluzione.
Prima o poi dovrà apparire una lettura marxista leninista dei Quaderni del Carcere per sbriciolare punto per punto tutti gli imbrogli che su quei Quaderni hanno intessuto Togliatti in primis e tutta la pletora di intellettuali che si sono messi al suo servizio.
Una nuova rilettura dei Quaderni si impone non solo per ridare a Gramsci l’onore del grande marxista leninista italiano quale Egli è stato e che Togliatti gli ha tolto, ma anche per mettere finalmente in luce i suoi apporti innovativi ed originali alla teoria marxista leninista della rivoluzione.
Nei Quaderni del carcere Gramsci parla spesso -non dando mai un carattere sistematico all’argomento- di guerra di movimento e guerra di posizione, del rapporto fra l’una e l’altra, di quali condizioni storiche concrete spingono un partito rivoluzionario ad adottare l’una tattica (guerra di movimento) rispetto all’altra (guerra di posizione). In una delle più significative note su tale argomento egli scrive: “Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle questioni sollevate da Bronstein, che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più “intervenzionista”, che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’“impossibilità” di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle “posizioni” egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la “guerra di posizione”, una volta vinta, è decisiva definitivamente” (QdC ediz. Einaudi pag. 801-802).
Che cosa dice in questo passo Gramsci? Che nel “dopoguerra” cioè dopo la Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi, invece di lanciarsi in un avventuristico attacco frontale propugnato da Trotski (Bronstein) hanno ancora più concentrato nelle loro mani il potere e sostenuto “l’offensiva contro gli oppositori”. Parla anche del “rafforzamento delle posizioni egemoniche” del “gruppo dominante” (cioè della maggioranza del partito bolscevico alla cui guida c’era Stalin), posizioni egemoniche che non escludevano neppure controlli politici e amministrativi (cioè allontanamenti o anche espulsioni dal Partito).
Questa nota di Gramsci sbugiarda in modo clamoroso Giuseppe Vacca che ha scritto (nella retro copertina del 1° volume dei Quaderni del carcere) che Gramsci “fu l’iniziatore della critica più pregnante dello stalinismo”. È un’affermazione del tutto falsa perché Gramsci condivise la linea di Stalin proprio in quell’aspetto della sua azione politica che più di ogni altra è stata violentemente attaccata dalla borghesia, dalla socialdemocrazia e dai trotskisti: la lotta dura e intransigente contro l’opposizione interna che culminerà con i Processi di Mosca del ’36, ’37 e ’38.
Da questa nota si evince anche che mettere in contrapposizione, come fanno i revisionisti, “dominio” ed “egemonia” (quasi che Gramsci preferisse porre l’accento piuttosto sull’una che sull’altro) è una mistificazione. Ogni dominio (sia pure il più violento e terroristico come fu quello fascista) presuppone un’egemonia, altrimenti non si spiegherebbero le “adunate oceaniche” e il prestigio di cui godette il “Duce” che stimolò nel cuore di una piccola borghesia frustrata dalla guerra il sempre risorgente orgoglio per le imprese colonialiste ed imperialiste.
Gramsci può aver detto, nel corso della sua prigionia, che essendo le società occidentali meno “gelatinose” e quindi più complesse di quelle orientali sarebbe occorso, preferibilmente, attuare una tattica di “guerra di posizione "fatta di “casematte” da conquistare progressivamente piuttosto che un “assalto armato” al potere borghese (“guerra di movimento”). Accogliere quest’idea come un dogma indimostrabile è antistorico, è anti-marxista, è avallare un Gramsci gradualista, riformista, in ultima analisi un Gramsci togliattiano.
È comprensibilissimo che il grande rivoluzionario sardo in una condizione drammatica di crudele, totale isolamento dal mondo (quando le borghesie già affilavano i coltelli in preparazione della seconda guerra mondiale) sia potuto cadere preda del pessimismo. Il Gramsci che lottava contro il degrado fisico e morale imposto dai carnefici fascisti non era il Gramsci dell’Ordine Nuovo e del Congresso di Lione: chi volutamente non tiene conto delle condizioni assolutamente eccezionali in cui piombò dopo l’arresto non è un marxista.
Resta tuttavia il fatto che la Storia ha dimostrato che si trattava di un pessimismo infondato, perché da lì a qualche anno si sarebbe sviluppata in Europa -cioè nel luogo geopolitico in cui la rivoluzione socialista era erroneamente ritenuta più “difficile” rispetto all’Oriente- un’insurrezione popolare come conseguenza inevitabile della catastrofe della seconda carneficina mondiale e che portò all’instaurazione del socialismo in mezza Europa. Lo stesso Gramsci, se avesse resistito qualche anno in più alle torture che gli inflisse il fascismo, e avesse vissuto lo sfacelo della guerra e la rivoluzione armata antifascista, difficilmente sarebbe rimasto legato alla sua idea di guerra di posizione.
Spriano dice che “tutto (tutto!!) il pensiero politico di Gramsci approda al principio dell’egemonia”. Ma che cos’è l’egemonia? Abbiamo letto che i volumi, i saggi e gli articoli su Gramsci costituiscono un insieme di diciannovemila documenti in 41 lingue che vanno a comporre la più vasta bibliografia dedicata ad un singolo autore! Ciò significa che Gramsci, “egemonicamente "parlando (ovviamente dal punto di vista dell’egemonia borghese), è stato accolto nell’empireo dei “classici” della letteratura mondiale al di là e al disopra della politica, ma in particolare al di là della politica rivoluzionaria. Bisognerebbe indagare sul perché di questa straordinaria fortuna postuma del Gramscismo al di sopra delle classi.
I primi in assoluto che si sono cimentati in quest’operazione di trasfigurazione sono stati i revisionisti che dovevano dare nobili natali alla via italiana al socialismo. Secondo Vacca il pensiero di Gramsci “trascende l’orizzonte storico-politico del suo tempo, e quanto più passano gli anni e le sue opere si diffondono in contesti culturali lontani da quello in cui furono originariamente concepite, tanto più la sua ricerca si afferma come un‘crocevia’ delle maggiori ‘questioni’ del nostro tempo: i dilemmi della modernità, la soggettività dei popoli, le prospettive dell’industrialismo, la crisi dello Stato-nazione, il fondamento morale della politica”. Tutte chiacchiere controrivoluzionarie, dove, in questa fraudolenta descrizione del Gramsci vacchiano c’è di tutto, dai “dilemmi della modernità” (?) ai “fondamenti morali della politica” (?) alla "soggettività dei popoli” (?), nel “crocevia delle maggiori ‘questioni’ del nostro tempo "manca solo la rivoluzione.
La vera verità è che l’egemonia è divenuta un’accademia, un “lemma” che ha finito col perdere qualsiasi significato (o acquistarne un’infinità – che è la stessa cosa), un terreno di scontro ideale in sostituzione del campo di battaglia della lotta armata. Sembrerebbe anzi che l’egemonia sia la moderna (rispetto alla socialdemocrazia) chiave di volta per soppiantare la rivoluzione e sostituirla con l’opera di “convinzione” degli intellettuali organici.
Vista alla luce dell’attuale società borghese, che è la società della TV, queste idee revisioniste dell’egemonia sono completamente ridicole se paragonate, appunto, alla TV, cioè all’egemonia schiacciante, intossicante, “instupidente” e "addormentante” che esercita la TV sulla “società civile” con i suoi canali (a decine e a centinaia). E’ un’egemonia che grava come un macigno e intorpidisce i cervelli: i programmi di una TV borghese imperialista possono essere definiti veri e propri crimini culturali contro l’umanità, che hanno come sottofondo una furiosa propaganda contro il comunismo e contro la civiltà, che propagandano oscene falsità sulla giustezza delle aggressioni imperialiste a popoli indifesi e che penetrano in tutte le famiglie non risparmiano neanche i bambini.
Non c’è più bisogno dei grandi intellettuali organici alla borghesia come Croce per diffondere valori antagonisti al marxismo: oggi basta un miserabile delinquente palazzinaro per mettere su reti televisive nazionali che esercitano egemonia mille volte più efficace e micidiale di un intellettuale organico (parliamo del Berlusca). Aggiungeteci la stampa quotidiana, soporifera quando si tratta di mettere la sordina alle lotte sociali, guerrafondaia se deve avallare le menzogne del Grande fratello, dal Corriere della Sera a Repubblica via via fino all’Unità (che hanno ancora l’improntitudine di lasciare la scritta “giornale fondato da Antonio Gramsci”!).
Per contrastare quest’egemonia borghese assolutamente preponderante, all’insegna di quali valori politici ideologici culturali si è contrapposta l’egemonia del partito comunista togliattiano? La genuflessione allo Stato, alla cosiddetta “repubblica nata dalla resistenza”, l’ossequio servile alle regole del gioco della democrazia senza aggettivi. Togliatti arrivò a dire che la Resistenza era il coronamento del Risorgimento, che la Resistenza aveva apportato una “correzione” al Risorgimento…ma soffermiamoci un attimo su una pagina di storia così importante per noi italiani. Il nostro Risorgimento è stato un processo (giunto a maturazione con secoli di ritardo rispetto ad altre nazioni europee) e quindi divenuto irresistibile, che ha portato finalmente all’unità d’Italia con la cacciata dell’impero austro-ungarico dal Lombardo-Veneto e la distruzione di Ducati e Granducati, l’abbattimento del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio.
Era ora! Ma chi è stato, in ultima analisi, l’egemone in questa lotta? La monarchia Sabauda e il suo primo ministro Cavour. La possibilità di un esito democratico-repubblicano (Mazzini-Garibaldi) fu sconfitta. L’unità d’Italia fu un fatto politico importantissimo, ovviamente, ma che non ebbe in pratica nessuna conseguenza sul piano sociale ed economico per le larghe masse dei contadini (il grande latifondo non fu toccato) e le masse lavoratrici in generale. Quindi l’unità della nostra nazione, da un astratto punto di vista di “sinistra” si è fatta nel “peggiore” dei modi possibili. Dire dunque che la Resistenza ha rappresentato il coronamento o la “correzione” del Risorgimento è una truffa colossale.
La verità sta da un’altra parte: la Resistenza non aveva come finalità quella di servire a perfezionare il dominio borghese, a imbellettarlo con il suffragio universale (che è una conquista borghese) e con la forma repubblicana dello Stato (che è anch’essa un’altra conquista borghese) ma doveva “proseguire”, se ci fosse stata una guida marxista leninista, “verso” il socialismo (come è avvenuto in altri paesi europei). E invece, dopo aver dissipato questa occasione storica irripetibile (200 mila uomini armati, lo Stato monarco-fascista in sfacelo, la presenza sulla scena mondiale di un’Urss trionfatrice sul nazismo e militarmente fortissima e temuta, un processo rivoluzionario in atto nell’Europa dell’Est, una grande guerra rivoluzionaria in Cina guidata da un Partito Comunista) i togliattiani hanno infangato la Resistenza attribuendole il “merito” di aver trasformato un’Italia proto-borghese monarchica, in un’Italia borghese repubblicana.
L’egemonia o è proletaria o borghese, o alimenta l’odio, lo smascheramento e il disprezzo per lo Stato borghese, il parlamento borghese e la democrazia borghese oppure diffonde idee nefaste sullo Stato “di tutti” e sulla democrazia intesa (come disse Berlinguer) come “valore universale”. Abbiamo il diritto, dopo 57 anni dal fatidico 8° Congresso kruscioviano controrivoluzionario del Pci, di rigettare totalmente e integralmente quella politica e quella “teoria” che ha portato alla distruzione del comunismo nel nostro paese? Se, come diceva Gramsci, la filosofia della praxis è unità di filosofia e politica, è uguaglianza di pensiero e azione, non dobbiamo trarre dalla marcia realtà dell’attuale teatrino politico borghese l’incrollabile certezza che soltanto la lotta armata servirà ad abbattere questo Stato?
Di egemonia rivoluzionaria proletaria Lenin e Stalin non solo ne hanno scritto, ma l’hanno anche esercitata per davvero sia all’interno della decrepita Russia zarista sia dopo aver condotto alla vittoria una rivoluzione armata, sia nell’arena internazionale. Il primo a riconoscerlo è Gramsci: “Il più grande teorico moderno della filosofia della paxis (parla di Lenin), nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica… ha, in opposizione alle diverse tendenze “economicistiche”, rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza…” (Quaderni del carcere, ediz. Einaudi, pag. 1235). Secondo uno studioso cinese di Gramsci, il filosofo Tian Shigang “senza il leninismo e la rivoluzione d’Ottobre non ci sarebbe la teoria dell’egemonia di Gramsci”.
Si può dire che il “Che fare? "scritto da Lenin (1902) è un monumento all’”egemonia”, nel senso che è il testo che più sistematicamente ed implacabilmente combatte e quindi smaschera ogni tipo di ristrettezza ed autolimitazione della lotta della classe operaia e del partito politico che la rappresenta. “Il proletariato, per essere veramente rivoluzionario, dice Lenin, deve saper mettere in pratica l’idea dell’egemonia” (Marx-Engels-Marxismo, ediz. Rinascita, pag.245), deve cioè, in una “multiforme agitazione politica” saper fare proprie anche le rivendicazioni che provengono da tutti gli altri strati sociali oppressi, spiegando però il carattere ristretto ed inconseguente di tali rivendicazioni, che vanno sempre e comunque incasellate nella prospettiva della rivoluzione socialista. Addirittura, dice Lenin “il proletariato educa le masse popolari nello spirito di devozione all’idea della rivoluzione” (ibid. pag.252). Da notare: “spirito di devozione all’idea di rivoluzione”. Per tutta la sua vita Lenin si è battuto per l’idea dell’egemonia. “Ogni lotta di ogni piccola borghesia contro ogni sorta di privilegi porta sempre in sé le tracce della limitatezza, della mancanza di risolutezza piccolo-borghese, e la lotta contro queste caratteristiche è appunto compito dell’egemone” (LOC vol 17, pag 66).
Notiamo di sfuggita che ci troviamo oggi in Italia di fronte ad un caso lampante di piccola-borghesia che intende lottare “contro ogni sorta di privilegi”. Essa trova espressione nel movimento di Grillo. Coloro che usurpano ancora il nome ed i simboli del comunismo, che avrebbero dovuto esercitare egemonia denunciando la limitatezza e mancanza di risolutezza di questa lotta, si sono invece fatti essi stessi egemonizzare da un giudice borghese cento volte più moderato di Grillo! C’era un capo del riformismo russo (siamo nel 1911), un certo Levitski che dichiarò che la socialdemocrazia russa doveva essere “non un’egemonia ma un partito di classe”. “Questo significa, commentò Lenin, dire allo schiavo della sua epoca, all’operaio salariato, lotta per migliorare la tua situazione di schiavo, ma considera come utopia nociva l’idea dell’abbattimento della schiavitù” (LOC vol. 17 pag. 67).
Dunque l’egemonia del proletariato (attraverso il suo partito marxista) consiste nell’educare le masse oppresse e sfruttate all’idea “dell’abbattimento della schiavitù”. “Il nostro partito -scrisse Lenin nelle Tesi d’Aprile- è in minoranza, e costituisce per ora un’esigua minoranza”. Dunque da esigua minoranza della nazione russa, nel corso di soli 8 mesi, i bolscevichi diventarono maggioranza nei due principali Soviet, quelli di Pietroburgo e di Mosca (e i soviet erano organi di potere, anzi di contro potere, organi di dualismo di potere che alla fine scalzarono l’altro potere che era il governo Kerenski). Se non fossero stati egemoni, ci chiediamo, come sarebbe stato possibile il “miracolo” di instradare la sterminata popolazione russa (la gran parte della quale era contadina) sulla linea rivoluzionaria bolscevica-leninista?
L’egemonia del proletariato è una linea rivoluzionaria aderente alla situazione storica data, è un complesso di idee che vanno incontro alle necessità impellenti delle masse oppresse: “Il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici gli errori della loro tattica” (Lenin, Tesi d’Aprile). E fu una lotta al coltello contro tutte le mistificazioni, gli inganni e le falsificazioni del potere reazionario, il quale ultimo fece ripiombare la Russia democratica rivoluzionaria nel clima reazionario zarista poiché si mise sulla via di distruggere le tipografie bolsceviche e di dare la caccia a Lenin per fargli fare la fine che i Kerenski tedeschi riserveranno a Rosa Luxemburg e a Karl Liebcnecht.
Nel corso di un'intervista concessa ad una delegazione di operai statunitensi Stalin si diffuse sul problema dell’egemonia. Egli disse: “Pur essendo stato la forza d’urto della rivoluzione, il proletariato russo ha cercato nello stesso tempo di essere l’egemone, il dirigente politico di tutte le masse sfruttate della città e della campagna, stringendole attorno a sé, strappandole alla borghesia, isolando politicamente la borghesia. Egemone delle masse sfruttate, il proletariato russo ha lottato per prendere il potere nelle proprie mani e servirsene per il proprio interesse contro la borghesia, contro il capitalismo. Proprio questo spiega perché ogni grande scoppio della rivoluzione in Russia sia nell’ottobre 1905 che nel febbraio 1917, abbia portato sulla scena i Soviet dei deputati operai, come embrioni del nuovo apparato del potere avente la funzione di schiacciare la borghesia, in opposizione al parlamento borghese, vecchio apparato del potere avente la funzione di schiacciare il proletariato. Due volte da noi, la borghesia ha tentato di restaurare il parlamento borghese e metter fine ai Soviet: nel settembre del 1917 al tempo del preparamento, prima della presa del potere da parte dei bolscevichi, e nel gennaio 1918 al tempo dell’Assemblea costituente, dopo la presa del potere da parte del proletariato, ed entrambe le volte è stata sconfitta. Perché? Perché la borghesia era già politicamente isolata, perché le larghe masse dei lavoratori guardavano al proletariato come l’unico capo della rivoluzione, perché i Soviet erano già stati provati esperimentati dalle masse come il loro proprio potere operaio, e perché cambiare questo potere con un parlamento borghese sarebbe stato un suicidio. Non c’è quindi da meravigliarsi se il parlamentarismo borghese non ha attecchito da noi. Ecco perché la rivoluzione ha portato in Russia al potere del proletariato. Questi sono risultati dell’applicazione del sistema leninista dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione” (Stalin, Opere complete, ediz. Rinascita, vol. 10°, pagg. 109-110).
Gramsci è stato un teorico profondo ed originale dell’egemonia ed ha quindi dato un contributo autentico alla teoria marxista, ma elevarlo a livello di Lenin è anch’essa una mistificazione. Togliatti affermò di considerare l’egemonia gramsciana una “riformulazione del leninismo". Spriano, come abbiamo visto, scrisse che Gramsci ha inventato una nuova teoria della rivoluzione. Losurdo, il quale evidentemente si considera uno dei più grandi marxisti viventi, va oltre Spriano e con minore cautela rispetto ai vecchi volponi revisionisti scrive: “Lenin a lungo vede nella rivoluzione d’Ottobre solo il preludio della rivoluzione in Occidente, considerata ormai imminente. Certo, il dirigente bolscevico si rende poi conto dell’erroneità di tale previsione e della necessità di concentrarsi in Unione Sovietica sulla costruzione del socialismo, o, comunque, di un ordinamento politico-sociale post-capitalistico. Ma la morte interviene a troncare un tale processo di ripensamento: il punto d’approdo del dirigente bolscevico costituisce invece il punto di partenza della riflessione dei Quaderni del Carcere”.
Questa analisi di Losurdo, a parte il tono di supponenza che la permea, è completamente falsa. Che Lenin vedesse nella rivoluzione d’Ottobre il preludio della rivoluzione non solo europea, ma anche mondiale, era assolutamente giusto. Forse che gli orrori della prima guerra imperialista e la conseguente vittoria dell’Ottobre non provocarono un fermento rivoluzionario che si estese a tutta l’Europa e che portò il proletariato tedesco ed italiano sull’orlo della presa del potere? Non si costituì in Ungheria, sempre sull’onda dell’Ottobre, la Repubblica dei Soviet? E una possibilissima vittoria in Italia o in Germania della rivoluzione proletaria non avrebbe dato un ulteriore formidabile impulso a tutta l’Europa proletaria antiborghese? Le rivoluzioni sono rivoluzioni, o trionfano o sono schiacciate dalla reazione, e di fronte al fermento rivoluzionario che si accese in Europa, che cosa avrebbe dovuto fare la III internazionale voluta da Lenin se non rianimarlo, propagandarlo, dare una cassa di risonanza a questo fermento, spingerlo verso la vittoria?
Soltanto la pedanteria può portare trinciare giudizi sulla “erroneità” delle previsioni di Lenin. E poi che significa: Lenin (dopo il presunto errore di previsione) si “concentrò” sulla costruzione del socialismo o “di un ordinamento politico sociale post-capitalistico”? Losurdo ci da questa rappresentazione: Lenin prevede lo scoppio di altre rivoluzioni e se ne sta fermo, incrociando le dita nell’attesa che queste rivoluzioni (o almeno una di esse) giungano alla vittoria. Ma poi si rende conto che ha sbagliato previsione e si “concentra” sull’edificazione di un qualcosa che potrebbe lontanamente assomigliare al socialismo ma che socialismo non è, ma un “ordinamento sociale post-capitalistico”. Questa categoria inventata dal Losurdo è totalmente antimarxista, è una categoria che sta solo nel suo cervello. I bolscevichi hanno fatto una rivoluzione, distrutto lo Stato zarista, espropriato i capitalisti, nazionalizzato la terra, attuato per la prima volta nella storia dell’umanità un’economia centralizzata secondo le necessità della gente attraverso Piani Quinquennali e alla fine, a coronamento di tutte queste belle cose hanno sgominato militarmente il nazismo e ricostruito l’Urss ancora più potente di prima…e Losurdo, che ha evidentemente gusti molto sofisticati chiama tutto ciò, “ordinamento post-capitalistico”.
Quindi le rivoluzioni si fanno non per instaurare il "socialismo” ma il “post-capitalismo”, categoria spuria, né socialismo né capitalismo, scoperta per la prima volta da Losurdo. E poi vorremmo chiedergli: quale è stato il “processo di ripensamento” di Lenin? Su che cosa ha “ripensato"? Dove lo ha detto? dove lo ha scritto? C’è, nell’analisi di Losurdo qualcosa di sbalorditivo: la morte di Lenin (1924) interrompe il suo “ripensamento”, e toccherà a Gramsci, dopo alcuni anni, completare il presunto “ripensamento” di Lenin. E nel frattempo? Che cosa avrà mai fatto Stalin dopo la morte di Lenin? Non avrà mai avuto “ripensamenti” sul fatto che la società socialista (integrale) che stava costruendo, altro non era in effetti (per colpa delle rivoluzioni in Occidente non giunte alla vittoria) che un “ordinamento post-capitalistico”? Era troppo rozzo Stalin per avere simili ripensamenti? Domanda: Ma non le abbiamo già sentite in passato (meglio non fare nomi) ricostruzioni “storiche” simili a queste?
Per Spriano -ripetiamolo ancora un’altra volta- Gramsci ha prospettato una nuova teoria della rivoluzione, per Losurdo invece Gramsci è il teorico dei tempi lunghi della rivoluzione, a dispetto del fatto che sia nel primo che nel secondo dopoguerra il proletariato italiano sia stato molto vicino alla presa del potere. Ma davvero Gramsci è da ritenere l’autore di una “nuova” teoria della rivoluzione fondata, antileninisticamente parlando, sui “tempi lunghi”? No, Gramsci, molto più semplicemente, è stato un grande leninista, che ha il merito storico imperituro di aver spaccato il Psi e fatto nascere anche nell’Italia rivoluzionaria di allora un partito marxista leninista sezione italiana della Terza Internazionale. Quando all’interno del partito bolscevico gli oppositori, all’indomani della morte di Lenin, decuplicarono le loro energie scissioniste per impossessarsi del potere, Gramsci fu sempre dalla parte della maggioranza bolscevica che difese il leninismo e sgominò l’opposizione. Innalzare Gramsci al livello di Lenin apparentemente potrebbe sembrare una cosa lusinghiera per il grande rivoluzionario sardo. Ma egli stesso non avrebbe gradito tale accostamento. Sono i grandi sconvolgimenti nell’arena internazionale, sono le grandi rivoluzioni portate alla vittoria, sono i processi di costruzione del socialismo che si realizzano per la prima volta nella storia che producono i grandi teorici del comunismo. Altrimenti cadremmo vittime della miserabile teoria borghese del genio al di sopra della storia. E chi intende elevare Gramsci allivello di Lenin lo fa per dare maggiore autorità alla propria visione opportunista della rivoluzione attribuendola Gramsci. I marxisti leninisti hanno il sacro dovere di tenere Antonio Gramsci al riparo da simili operazioni ciniche e immorali e di smascherarle e denunciarle instancabilmente.