- Scritto da Manuel Santoro
- Pubblicato in Teoria
- Letto 776 volte
- dimensione font riduci dimensione font aumenta la dimensione del font
- Stampa
Engels e la concezione materialistica della storia
Quante volte nella nostra Scuola Rossa abbiamo ripetuto e ribadito la centralità della produzione, essendo la società un complesso di rapporti sociali di produzione. Engels, nel passaggio che riporto, ci ricorda, tra le altre cose, la definizione di “concezione materialistica della storia”. Definizione fondamentale che chiunque si avvicini al socialismo deve conoscere. In questo passaggio dell'Anti-Dühring esploriamo il cuore del pensiero del maestro del socialismo (M. Santoro).
Anti-Dühring - Terza Sezione: Socialismo - Elementi teorici
Friedrich Engels (1878)
La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale, che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l'articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell'eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nell'economia dell'epoca che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un nonsenso, il beneficio un malanno, è solo un segno del fatto che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell'ordinamento sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti che sono stati scoperti debbono del pari esistere, più o meno sviluppati, negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei fatti materiali esistenti della produzione.
Su queste basi, quale è dunque la posizione del socialismo moderno?
L'ordinamento sociale vigente, ed è questo un fatto ammesso ora quasi generalmente, è stato creato dalla classe oggi dominante, la borghesia. Il modo di produzione peculiare della borghesia, da Marx in poi designato col nome di modo di produzione capitalistico, era incompatibile con i privilegi locali e di ceto e con i vincoli reciproci dell'ordinamento feudale; la borghesia infranse l'ordinamento feudale e sulle sue rovine instaurò l'ordinamento sociale borghese, il regno della libera concorrenza, della libertà di domicilio, dell'uguaglianza dei diritti dei possessori delle merci, insomma tutte quelle che si chiamano delizie borghesi. Il modo di produzione capitalistico si poté ora sviluppare liberamente. Le forze produttive elaborate sotto la direzione della borghesia si svilupparono da quando il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la vecchia manifattura nella grande industria con celerità e proporzioni fino allora inaudite. Ma come al loro tempo la manifattura e l'artigianato, che sotto la sua azione si era ulteriormente sviluppato, erano venuti in conflitto con i vincoli feudali delle corporazioni, così la grande industria, arrivata al suo più pieno sviluppo, viene in conflitto con i limiti entro i quali la confina il modo di produzione capitalistico. Le nuove forze produttive hanno ormai superato la forma borghese del loro sfruttamento; né questo conflitto tra forze produttive e modo di produzione è un conflitto sorto nella testa degli uomini, come press'a poco quello tra il peccato originale e la giustizia divina, ma esiste nei fatti, obiettivamente, fuori di noi, indipendentemente dalla volontà e dalla condotta stessa di quegli uomini che lo hanno determinato. Il socialismo moderno non è altro che il riflesso ideale di questo conflitto reale, il suo ideale rispecchiarsi, in primo luogo nella testa della classe che sotto di esso direttamente soffre, la classe operaia.
Ora, in che cosa consiste questo conflitto?
Prima della produzione capitalistica, cioè nel medioevo, sussisteva dappertutto la piccola produzione, fondata sul fatto che i lavoratori avevano la proprietà privata dei loro mezzi di produzione: l'agricoltura dei piccoli contadini, liberi o servi, l'artigianato delle città. I mezzi di lavoro, terra, attrezzi agricoli, laboratori, utensili, erano mezzi di lavoro individuali, destinati solo all'uso individuale, quindi necessariamente modesti, minuscoli, limitati. Ma proprio perciò essi appartenevano anche, di regola, al produttore stesso. Concentrare questi mezzi di produzione sparpagliati e ristretti, estenderli, trasformarli nelle leve potentemente efficienti della produzione attuale: questa è stata precisamente la funzione storica del modo di produzione capitalistico e della classe che lo rappresenta, la borghesia. Come essa abbia adempiuto questa sua funzione, a partire dal XV secolo, passando per i tre stadi della cooperazione semplice, della manifattura e della grande industria, è stato descritto diffusamente da Marx nella quarta sezione del "Capitale". Ma la borghesia, come vi è parimente dimostrato, non poteva trasformare quei mezzi di produzione limitati in possenti forze produttive, senza trasformarli da mezzi di produzione individuali in mezzi di produzione sociali che possono esser usati solo da una collettività di uomini. Al posto del filatoio, del telaio a mano, del maglio del fabbro, subentrarono la macchina per filare, il telaio meccanico, il maglio a vapore; al posto del laboratorio individuale subentrò la fabbrica, che esige il lavoro associato di centinaia e migliaia di uomini. E con i mezzi di produzione, così la produzione stessa si trasformò da una serie di atti individuali in una serie di atti sociali e i prodotti si trasformarono da prodotti individuali in prodotti sociali. Il filo, il tessuto, gli oggetti di metallo che ora uscivano dalla fabbrica, erano il prodotto comune di molti operai, per le cui mani essi dovevano passare successivamente prima di essere pronti. Nessuno di loro può dire individualmente: "Questo l'ho fatto io, è il mio prodotto".
Ma laddove la divisione naturale del lavoro in seno alla società è la forma naturale della produzione, essa imprime ai prodotti la forma di merci il cui scambio reciproco, compra e vendita, mette i singoli produttori in condizione di soddisfare i loro svariati bisogni. Questo avveniva già nel medioevo. Il contadino, per es., vendeva prodotti agricoli all'artigiano e a sua volta comprava da esso prodotti artigiani. In questa società di produttori individuali, di produttori di merci, si insinuò dunque il nuovo modo di produzione. Nel bel mezzo della divisione del lavoro naturale, priva di un piano, quale dominava in tutta la società, questo nuovo modo di produzione instaurò la divisione del lavoro secondo un piano, con cui era organizzata nella fabbrica; accanto alla produzione individuale apparve la produzione sociale. I prodotti di entrambi venivano venduti allo stesso mercato e quindi a prezzi, almeno approssimativamente, eguali. Ma l'organizzazione secondo un piano era più forte della divisione naturale del lavoro; le fabbriche che lavoravano socialmente producevano i loro prodotti più a buon mercato che non i piccoli produttori individuali. La produzione individuale soggiacque successivamente in tutti i campi, la produzione sociale rivoluzionò tutto l'antico modo di produzione. Ma questo suo carattere rivoluzionario fu così poco riconosciuto che, al contrario, essa fu introdotta come mezzo per accrescere e favorire la produzione delle merci. Essa sorse ricollegandosi direttamente a leve determinate e già esistenti della produzione e dello scambio delle merci: il capitale mercantile, l'artigianato, il lavoro salariato. Poiché essa stessa si presentava come una nuova forma della produzione di merci, le forme di appropriazione della produzione di merci rimasero in pieno vigore anche per essa.
Nella produzione di merci, quale si era sviluppata nel medioevo, non poteva affatto sorgere la questione a chi dovesse appartenere il prodotto del lavoro. Il produttore individuale lo aveva, di regola, confezionato con una materia prima che gli apparteneva e che spesso era prodotta da lui stesso, con mezzi di lavoro propri e col lavoro manuale proprio e della sua famiglia. Non c'era assolutamente nessun bisogno che egli se lo appropriasse, gli apparteneva in modo assolutamente spontaneo. La proprietà dei prodotti era quindi fondata sul proprio lavoro. Anche laddove ci si serviva del lavoro altrui, di regola questo aiuto restava cosa accessoria e chi lo prestava frequentemente riceveva, oltre al salario, anche un'altra remunerazione: l'apprendista e il garzone delle corporazioni lavoravano per avviarsi a diventare maestri, più che per il vitto e il salario. A questo punto venne la concentrazione dei mezzi di produzione in grandi officine e manifatture, la loro trasformazione in mezzi di produzione effettivamente sociali. Ma i mezzi di produzione e i prodotti sociali furono trattati come se fossero ancora quali erano prima, mezzi di produzione e prodotti individuali. Se ancora il possessore di mezzi di lavoro si era appropriato il prodotto perché di regola era un prodotto suo proprio, e il lavoro sussidiario altrui era solo l'eccezione, ora il possessore degli strumenti di lavoro continuò ad appropriarsi il prodotto, malgrado non fosse più il suo prodotto, ma esclusivamente il prodotto del lavoro altrui. In questo modo i prodotti, oramai creati socialmente, se li appropriarono non già coloro che mettevano effettivamente in movimento i mezzi di produzione e che effettivamente creavano i prodotti, ma il capitalista. I mezzi di produzione e la produzione sono diventati essenzialmente sociali, ma sono sottoposti ad una forma di appropriazione che ha come presupposto la produzione privata individuale, nella quale quindi ognuno possiede il proprio prodotto e lo porta al mercato. Il modo di produzione viene sottoposto a questa forma di appropriazione malgrado ne elimini il presupposto. In questa contraddizione che conferisce al nuovo modo di produzione il suo carattere capitalistico, risiede già in germe tutto il contrasto del nostro tempo. Quanto più il nuovo modo di produzione divenne dominante in tutti i campi decisivi della produzione e in tutti i paesi di importanza economica decisiva, e conseguentemente soppiantò la produzione individuale sino ai suoi residui insignificanti, tanto più crudamente doveva apparire anche l'inconciliabilità della produzione sociale e dell'appropriazione capitalistica.
I primi capitalisti, come abbiamo detto, trovarono già esistente la forma del lavoro salariato; ma lavoro salariato come eccezione, occupazione ausiliaria, accessoria, fase transitoria. Il lavoratore agricolo che andava temporaneamente a lavorare a giornata aveva il suo palmo di terra col quale, in mancanza di meglio, poteva vivere. Gli ordinamenti delle corporazioni si davano cura che il garzone di oggi diventasse il maestro di domani. Ma non appena i mezzi di produzione divennero sociali e furono concentrati nelle mai dei capitalisti, tutto questo mutò. Il mezzo di produzione, così come il prodotto del piccolo produttore individuale, perdette sempre più di valore e a costui non restò altro che andare a salario presso il capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e occupazione sussidiaria, divenne regola e forma fondamentale di tutta la produzione; prima occupazione accessoria, diventò ora l'attività esclusiva dell'operaio. Il salariato temporaneo si trasformò nel salariato a vita. La quantità dei salariati a vita fu inoltre smisuratamente accresciuta dal contemporaneo crollo dell'ordinamento feudale, dalla dispersione del personale dei signori feudali, dall'espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. La separazione tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei capitalisti e i produttori, ridotti a non possedere altro che la loro forza-lavoro, divenne perfetta. La contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si presentò come antagonismo tra proletariato e borghesia.
Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si inserì in una società di produttori di merci, di produttori individuali, il cui nesso sociale era determinato dallo scambio dei loro prodotti. Ma ogni società fondata sulla produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i produttori hanno perduto il dominio sui loro propri rapporti sociali. Ognuno produce per sé con mezzi di produzione che casualmente possiede e per il fabbisogno del suo scambio individuale. Nessuno sa né quale quantità del suo articolo arriva al mercato, né in generale quale quantità ne è richiesta; nessuno sa se il suo prodotto individuale risponde ad un effettivo bisogno, né se potrà cavarne le spese, né se in generale potrà vendere. Domina l'anarchia della produzione sociale. Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha le sue leggi specifiche, immanenti, inseparabili da essa. E queste leggi si attuano malgrado l'anarchia, in essa e per mezzo di essa. Esse compaiono nell'unica forma di nesso sociale che continua ad esistere, nello scambio, e si fanno valere sui prodotti individuali come leggi coattive della concorrenza. Da principio esse sono quindi sconosciute a questi stessi produttori e devono essere scoperte da loro a poco a poco e solo con una lunga esperienza. Esse dunque si attuano senza i produttori e contro i produttori, come leggi naturali della loro forma di produzione agenti ciecamente. Il prodotto domina i produttori.
Nella società medievale, specialmente nei primi secoli, la produzione era essenzialmente indirizzata al consumo personale. Essa appagava in prevalenza soltanto i bisogni del produttore e della sua famiglia. Laddove, come nella campagna, sussistevano rapporti di dipendenza personale, la produzione contribuiva anche all'appagamento dei bisogni del signore feudale. Quindi non c'era scambio e conseguentemente i prodotti non assumevano neppure il carattere di merci. La famiglia del contadino produceva quasi tutto quello di cui abbisognava, attrezzi e indumenti nonché mezzi di sussistenza. Solo allorché venne a produrre un’eccedenza sul proprio fabbisogno e sui versamenti in natura dovuti al signore feudale, solo allora cominciò a produrre anche merci; questa eccedenza immessa nello scambio, offerta in vendita, divenne merce. Gli artigiani cittadini dovettero, certo, già sin dal principio, produrre per lo scambio. Ma essi provvedevano col proprio lavoro anche alla massima parte del loro fabbisogno personale; avevano orti e piccoli campi; mandavano il loro bestiame nel bosco comunale che forniva loro inoltre legname da costruzione e legna da ardere; le donne filavano il lino, la lana, ecc. La produzione per lo scambio, la produzione di merci, era solo sul nascere. Da qui scambio limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile, isolamento locale verso l'esterno e unione locale all'interno: la marca nella campagna, la corporazione nella città.
Ma con l'estensione della produzione di merci, e specialmente con l'apparire del modo di produzione capitalistico, entrarono più apertamente e più prepotentemente in azione le leggi della produzione di merci sinora latenti. I vecchi vincoli si allentarono, e vecchie barriere di separazione furono infrante, i produttori si trasformarono sempre più in produttori di merci indipendenti e isolati. Apparve l'anarchia della produzione sociale e sempre più fu spinta al suo estremo. Ma il principale strumento con cui il modo di produzione capitalistico accresceva questa anarchia della produzione sociale era precisamente l'opposto dell'anarchia: era la crescente organizzazione della produzione, in quanto produzione sociale, in ogni singola azienda produttiva. Con questa leva, esso mise fine alla vecchia pacifica stabilità. Laddove veniva introdotto in un ramo di industria, non tollerava accanto a sé nessun altro modo di produzione più vecchio. Laddove si impadroniva di un mestiere ne distruggeva l'antica forma artigiana. Il campo del lavoro divenne un campo di battaglia. Le grandi scoperte geografiche e le colonizzazioni che seguirono moltiplicarono i territori di sbocco e accelerarono la trasformazione dell'artigianato in manifattura. La lotta non scoppiò soltanto tra i singoli produttori di una località; le lotte locali sviluppandosi divennero a loro volta lotte nazionali; come le guerre commerciali dei secoli XVII e XVIII. Finalmente la grande industria e la creazione del mercato mondiale resero universale la lotta e ad un tempo le conferirono una violenza inaudita. Tra i singoli capitalisti, così come tra intere industrie e interi paesi, il problema della loro esistenza viene deciso dalle condizioni più o meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali o artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo, trasportata, con accresciuto furore, dalla natura alla società. Il punto di vista dell'animale nella natura appare come l'apice dell'umano sviluppo. La contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica si riproduce come antagonismo tra l'organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l'anarchia della produzione nel complesso della società.
Il modo di produzione capitalistico si muove entro queste due forme nelle quali si manifesta quella contraddizione che gli è immanente per la sua origine e descrive, senza possibilità di uscirne, quel "circolo vizioso" che già Fourier vi aveva scoperto. Ciò che Fourier non poteva invero ancora scorgere ai suoi tempi, è che questo circolo progressivamente si restringe, che il movimento rappresenta piuttosto una spirale, e che, come quello dei pianeti, raggiungerà la sua fine collidendo col centro. È la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione che trasforma sempre più la grande maggioranza degli uomini in proletari e, a loro volta, sono le masse proletarie che metteranno termine, infine, all'anarchia della produzione. È la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione che trasforma l'infinita perfettibilità delle macchine della grande industria in una legge coercitiva che impone al singolo capitalista industriale di perfezionare sempre più le proprie macchine, pena la rovina. Ma perfezionare le macchine significa render superfluo del lavoro umano. Se l'introduzione e l'aumento del macchinario significa soppiantare milioni di operai manuali con pochi operai addetti alle macchine, il miglioramento del macchinario significa soppiantare un numero sempre crescente di operai - essi stessi addetti alle macchine - e in ultima analisi creare una massa di salariati disponibili superiore alla quantità media di unità che il capitale ha bisogno di occupare: creare cioè un vero esercito di riserva industriale, come lo chiamavo già nel 1845, disponibile per i tempi in cui l'industria lavora ad alta pressione, gettato sul lastrico nella crisi che necessariamente segue, in tutti i tempi palla di piombo al piede della classe operaia nella sua lotta per l'esistenza col capitale, regolatore che serve a tenere il salario a quel basso livello che è adeguato alle esigenze dei capitalisti. Così avviene che, per dirla con Marx, la macchina diviene il più potente mezzo di guerra del capitale contro la classe operaia; che lo strumento di lavoro strappa giornalmente dalle mani dell'operaio i mezzi di sussistenza; che il prodotto stesso dell'operaio si trasforma in uno strumento per l'asservimento dell'operaio. Così accade che l'economizzare mezzi di lavoro diventa a priori ad un tempo una dilapidazione senza ritegno della forza-lavoro ed una rapina ai danni dei normali presupposti della funzione del lavoro; che le macchine, che sono il mezzo più potente per abbreviare il tempo di lavoro, si mutano nel mezzo più infallibile per trasformare tutta la vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale; così accade che il sopralavoro degli uni diventa il presupposto della disoccupazione degli altri, e che la grande industria che dà la caccia a nuovi consumatori su tutta la superficie terrestre, in patria riduce il consumo delle masse ad un minimo di fame e così mina il proprio mercato interno.
"La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, ossia l'esercito industriale di riserva da una parte e volume ed energia dell'accumulazione dall'altra, incatena l'operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di capitale. L'accumulazione di ricchezza all'uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale" (Marx, "Il Capitale", pag. 671).
E aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra distribuzione dei prodotti, significa pretendere che gli elettrodi di una batteria, stando in collegamento con la batteria, non debbano scomporre l'acqua e sviluppare ossigeno al polo positivo e idrogeno al polo negativo.
Abbiamo visto come la perfettibilità della macchina moderna, spinta al punto più alto, si trasformi, mediante l'anarchia della produzione nella società, in un'imposizione che costringe il singolo capitalista industriale a migliorare necessariamente le proprie macchine, ad elevarne la forza produttiva. La semplice eventualità effettiva di estendere l'ambito della sua produzione, si trasforma per lui in un'imposizione di egual natura. La enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un bisogno di espansione sia qualitativa che quantitativa che si fa beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria è formata dal consumo, dallo scambio, dai mercati per i prodotti della grande industria. Ma la capacità di estensione dei mercati, sia estensiva che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono in modo molto energico. La espansione dei mercati non può andare pari passo con quella della produzione. La collisione diviene inevitabile e poiché non può presentare nessuna soluzione sino a che non manda a pezzi lo stesso modo di produzione capitalistico, diventa periodica. La produzione capitalistica genera un nuovo "circolo vizioso".
In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale, tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti i popoli civili e di tutte le loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano di mezzi di sussistenza; fallimenti e vendite all'asta si susseguono. La stagnazione dura per anni, forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti in gran copia, sino a che finalmente le masse di merci accumulate defluiscono grazie ad una svalutazione più o meno grande e produzione e scambio a poco a poco riprendono il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si accelera, si mette al trotto, il trotto dell'industria si trasforma in galoppo e questo si accelera sino ad assumere l'andatura sfrenata di un vero steeple-chase [corsa ad ostacoli] industriale, commerciale, creditizio e speculativo per ricadere finalmente, dopo salti da rompersi il collo, nel baratro del crac. E così sempre da capo, tutto questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per ben cinque volte e in questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la sesta volta. E il carattere di queste crisi è così nettamente marcato che Fourier le ha colte tutte quante, allorché definì la prima come crise pléthorique, crisi di sovrabbondanza.
Nelle crisi la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione capitalistica perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente annientata; il mezzo della circolazione, il denaro, diventa un ostacolo per la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge il suo culmine. Il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio, le forze produttive si ribellano contro il modo di produzione che esse hanno già superato.
Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con l'anarchia della produzione esistente nella società accanto ad essa e al di sopra di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente concentrazione dei capitali che ha luogo durante le crisi, mediante la rovina di un gran numero di grandi capitalisti e di un numero ancora maggiore di piccoli capitalisti. Tutto il meccanismo del modo di produzione capitalistico si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso produce. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per questa ragione, anche l'esercito industriale di riserva è costretto a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale, esistono in sovrabbondanza. Ma "la sovrabbondanza diventa fonte di miseria e penuria" (Fourier) perché è precisamente essa che ostacola la trasformazione dei mezzi di produzione e di sussistenza in capitale. Infatti nella società capitalistica i mezzi di produzione non possono entrare in azione se prima non si sono trasformati in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della forza-lavoro umana. La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano il carattere di capitale si erge come uno spettro tra essi e gli operai. Essa sola impedisce il contatto tra le leve reali e le leve personali della produzione; essa sola proibisce ai mezzi di produzione di funzionare e agli operai di lavorare e di vivere. Da una parte dunque viene conclamata la incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a dirigere queste forze produttive. Dall'altra queste stesse forze produttive spingono con forza sempre crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere di forze produttive sociali.
È questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare sempre più come sociali queste forze produttive, nella misura in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici. Tanto il periodo di grande prosperità nell'industria con la sua illimitata inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie di società anonime. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal principio così enormi da escludere, come ad es. avviene nelle strade ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado di sviluppo, neanche questa forma è più sufficiente; il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione. La necessità della trasformazione in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.
Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitali si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li relega tra l'esercito industriale di riserva.
Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze collettive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione.
Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più potente leva della produzione stessa.
Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale alle forze naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo riconosciute, che ne abbiamo compreso il modo di agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto particolare per le odierne potenti forze produttive. Fino a quando ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il carattere, e a questa intelligenza si oppongono il modo di produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze agiranno malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo diffusamente esposto, ci domineranno. Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. È questa la differenza tra la forza distruttiva dell'elettricità del lampo nella tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco; la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al sevizio dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all'anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, in cui il prodotto asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria, viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti fondato sulla natura stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da un'appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, dall'altra da un'appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento.
Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento, spingendo in misura sempre maggiore alla trasformazione dei grandi mezzi di produzione socializzati in proprietà statale, essa stessa mostra la via per il compimento di questo rivolgimento. Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora, smoventesi sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè dell'organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione (schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società: nell'antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso, superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue. Questo è l'apprezzamento che deve farsi della frase "Stato popolare libero", tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in sede di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica; e questo è del pari l'apprezzamento che deve farsi dell'esigenza dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall'oggi al domani.
La presa di possesso di tutti i mezzi di produzione da parte della società, sin dall'apparire del modo di produzione capitalistico nella storia, è stata spesso assai sognata più o meno oscuramente sia dai singoli che da intere sette, come un ideale dell'avvenire. Ma essa poteva diventare possibile, poteva diventare una necessità storica, solo quando fossero esistite le condizioni materiali della sua attuazione. Essa, come ogni altro progresso sociale, diviene realizzabile non già per mezzo della conoscenza acquisita che l'esistenza delle classi contraddice alla giustizia, all'eguaglianza, ecc., non già per la semplice volontà di abolire queste classi, ma per mezzo di certe nuove condizioni economiche. La divisione della società in una classe che sfrutta e in una classe che è sfruttata, in una classe che domina e in una classe che è oppressa, è stata la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione. Sino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente la società si divide in classi. Accanto a questa grande maggioranza dedita esclusivamente al lavoro, si forma una classe emancipata dal lavoro immediatamente produttivo, la quale cura gli affari comuni della società: direzione del lavoro, affari di Stato, giustizia, scienza, arti, ecc. A base della divisione in classi sta quindi la legge della divisione del lavoro. Ma ciò non impedisce che questa divisione in classi non si sia effettuata mediante forza e rapina, astuzia e inganno e che la classe dominante, una volta in sella, non abbia mai mancato di consolidare il proprio dominio a spese della classe che lavora e di trasformare la direzione della società in sfruttamento delle masse.
Ma se, di conseguenza, la divisione in classi ha una certa giustificazione storica, tale giustificazione essa l'ha soltanto per un determinato intervallo di tempo, per determinate condizioni sociali. Essa si è fondata sull'insufficienza della produzione e sarà eliminata dal pieno sviluppo delle moderne forze produttive. Ed in effetti, l'abolizione delle classi sociali ha come suo presupposto un grado di sviluppo storico di cui non solo l'esperienza di questa o di quella determinata classe dominante, ma in generale l'esistenza di una classe dominante e quindi della stessa differenza di classe, è diventata un anacronismo, un vecchiume. Essa ha quindi come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l'appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e del potere spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto. Se ormai è difficile dire che il fallimento politico e intellettuale della borghesia sia ancora un segreto per essa stessa, il suo fallimento economico si ripete regolarmente ogni dieci anni. In ogni crisi la società soffoca sotto il peso delle proprie forze produttive e dei propri prodotti che essa non può utilizzare, ed è impotente davanti all'assurda contraddizione che i produttori non hanno niente da consumare perché mancano i consumatori. La forza di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente illimitato della produzione stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale dei mezzi di produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze produttive e di prodotti, che al presente è l'immancabile campagna della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L'appropriazione sociale, eliminando l'insensato sciupio del lusso delle classi oggi dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività un'esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste.
Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. L'anarchia all'interno della produzione sociale viene sostituita dall'organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per l'esistenza individuale cessa. In questo modo, in un certo senso, l'uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza effettivamente umane. La cerchia delle condizioni di vita che circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati passa ora sotto il dominio e il controllo degli uomini, che adesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché, diventano padroni della loro propria organizzazione in società. Le leggi della loro attività sociale che sino allora stavano di fronte a loro come leggi di natura estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi dominate. L'organizzazione in società propria degli uomini, che sino ad ora stava loro di fronte come una legge elargita dalla natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione. Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia passano sotto il controllo degli uomini stessi. Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia, solo da questo momento le cause sociali da loro poste in azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente, anche gli effetti che essi hanno voluto. È questo il salto dell'umanità dal regno della necessità al regno della libertà.
Compiere quest'azione di liberazione universale è il compito storico del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata in azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica del movimento proletario.