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100° anniversario: Pcd'I di Antonio Gramsci e nascita di Fosco Dinucci
di Maurizio Nocera
100° anniversario della fondazione del partito comunista d'italia di antonio gramsci (1921) e 100° anniversario della nascita di Fosco Dinucci (1921) fondatore del partito comunista d'italia (marxista-lenista) (1966)
Straordinaria coincidenza quest'anno. Ricorre il 100° anniversario della nascita a Livorno del Pcd'I di Antonio Gramsci e ricorre pure il 100° anniversario della nascita a Pontasserchio (Pisa) di Fosco Dinucci, fondatore nel 1964 del Movimento marxista-leninista italiano, fondatore nello stesso anno della rivista comunista «Nuova Unità», nonché fondatore, il 15 ottobre 1966 a Livorno (nello stesso teatro "San Marco") del Partito comunista d'Italia (marxista-leninista), di cui fu eletto segretario generale, rimanendo tale fino allo scioglimento a Roma del partito il 15 settembre 1991 al VI° congresso straordinario, imposto da un gruppo di trotskisti annidatosi nell'Ufficio politico del partito.
Fosco Dinucci era nato a Pontasserchio il 27 maggio 1921 ed è morto il 28 aprile 1993. Durante il ventennio mussoliniano fu antifascista poi, alla caduta del regime, fu partigiano combattente sull'appenino tosco-emiliano nella Brigata "Garibaldi"; fu anche gappista e commissario politico. Arrestato dai nazifascisti fu sottoposto a durissimi interrogatori. Il periodo della Resistenza e della lotta partigiana, Fosco non lo dimenticò mai, tant'è che in uno dei suoi articoli su «Nuova Unità», scrisse.
«La Resistenza antifascista, che culminò nella guerra partigiana e nell'insurrezione del 25 aprile 1945, ripropone continuamente la sua attualità, come richiamo alle più valide esperienze di lotta popolare nel nostro Paese, come insegnamento per i compiti rivoluzionari del Partito comunista d'Italia (marxista-leninista)./ La Resistenza ebbe inizio fin da quando, dopo la prima guerra mondiale, le bande mussoliniane, al servizio dei grandi capitalisti e agrari, in connubio con la casta militare e la monarchia, imperversarono nelle città e nelle campagne d'Italia, instaurando un'aperta dittatura borghese che soppresse ogni libertà per il popolo e stabilì il più duro sfruttamento sui lavoratori./ Le masse lavoratrici, specialmente gli operai e i contadini, lottavano contro le conseguenze della crisi susseguente alla guerra: aumento dei prezzi, disoccupazione, miseria e fame./ Si sviluppò un forte movimento rivoluzionario che nel 1920 portò all'occupazione delle fabbriche. Contro i lavoratori, specialmente contro quelli più impegnati nella lotta, la classe dominante italiana scatenò la violenza reazionaria, avvalendosi delle squadracce fasciste e dell'apparato statale. Le forze popolari, abbandonate a se stesse per il tradimento socialdemocratico, prive della guida di un'avanguardia proletaria che avesse avuto modo di formarsi come partito marxista-leninista, non poterono opporre una valida violenza rivoluzionaria. Operai, braccianti, contadini poveri, giovani lavoratori e studenti, intellettuali progressisti compirono numerosi atti di eroismo, difendendo le loro organizzazioni di classe e i loro giornali./ Mancando però una guida rivoluzionaria, questa opposizione non potette spezzare la violenza fascista che imperversava con l'appoggio dell'apparato statale e con il finanziamento della reazione padronale. Quando i fascisti compivano assassini, non solo non venivano perseguiti, ma potevano contare su autorevoli protezioni nell'ambito dello Stato borghese. Quando, invece, un lavoratore si difendeva con la violenza rivoluzionaria, se non veniva ucciso subito dai fascisti, era tratto in arresto e deferito ai tribunali. [...] Migliaia e migliaia di lavoratori, soprattutto comunisti, furono perseguitati, imprigionati, condannati a lunghi anni di carcere, mandati al confino. Ci furono condanne all'ergastolo e a morte. I militanti antifascisti non si piegarono di fronte alla feroce reazione. Davanti ai tribunali, da accusati si trasformarono in accusatori; nelle carceri dettero vita a corsi di educazione politica e ideologica, per temprarsi come rivoluzionari. Antonio Gramsci, con il suo esempio politico e morale, riassume tutti i valori della Resistenza antifascista. [...] Gli ideali che ispirarono i partigiani, le masse insorte, coloro che affrontarono torture e morte, non furono costituiti soltanto dall'obiettivo della liberazione dal dominio nazifascista, ma anche dalla profonda aspirazione a creare una nuova società senza sfruttati e sfruttatori./ Per conseguire questo obiettivo, occorreva distruggere il fascismo sino alle fondamenta, nelle sue origini di classe. [...] Di fronte all'acutizzarsi dello scontro di classe, i lavoratori acquistano sempre più la consapevolezza di ricreare l'unità antifascista e antimperialista, per portare a fondo la lotta contro il fascismo, contro la società che ne è matrice e contro l'imperialismo che lo sostiene» (vd. Fosco Dinucci, Viva l'insurrezione del 25 aprile. Viva la guerra partigiana. Viva il 1° Maggio nella lotta di classe, in «Nuova Unità», 29 aprile 1971, pp. 1 e 4)
Fosco Dinucci militò nel Partito comunista italiano (Pci), svolgendo funzioni dirigenti a livello nazionale (dal 1949 insegnò ideologia marxista-leninista alle Frattocchie nella "Scuola di partito". Rimase nel Pci fino al 1962, quando dal Partito comunista cinese e dal Partito del Lavoro d'Albania giunsero in Italia i primi contrasti tra i marxisti-leninisti e i revisionisti sovietici kruscioviani. A quel tempo, sotto la segreteria di Palmiro Togliatti, che significava un Pci monolitico, non era facile differenziarsi sul piano ideologico, perché fortissimo era il legame organizzativo tra la direzione del partito e i militanti di base. Tuttavia Fosco seppe bene come districarsi dalla stretta revisionista e, assieme ad altri militanti (Mario Geymonat a Milano, Ugo Pisani a Padova, Livio Risaliti a Livorno, Pietro Scavo a Bari, e, a seguire, Angelo Cassinera a Casteggio/Pavia, Ennio Antonini a Nereto/Teramo, Amedeo Curatoli a Napoli), contribuì a far nascere il Movimento marxista-leninista italiano, successivamente il Pcd'I(m-l).
Il partito di Dinucci fu subito riconosciuto (agosto 1968) dal Partito comunista cinese e (nello stesso tempo) dal Partito del Lavoro d'Albania. Riconoscimenti che significarono diversi incontri tra Fosco e Mao, tra Fosco ed Enver Hoxha, cioè incontri ai massimi livelli. La linea ideologica che si stava determinando a livello internazionale era quella che vedeva una sorta di conseguenzialità tra il pensiero di Marx, quello di Engels, quello di Lenin e quello di Stalin. Da parte di Fosco Dunucci non ci fu mai una conseguenzialità che vedesse anche una quinta "testa" da aggiungere alle quattro menzionate. Quindi non Mao né Enver Hoxha. Egli diceva che la storia determinerà la conseguenzialità del pensiero marxista-leninista internazionale, mentre a noi italiani era doveroso rivolgere il nostro pensiero ad Antonio Gramsci, al quale andava riconosciuto il livello più alto di coscienza politica marxista-leninista in Italia.
Alcuni storici del percorso politico del Pcd'I(m-l) narrano che ad un certo punto (novembre 1968), nel convegno di Rovello Porro (Como) ci fu una scissione (10 dicembre 1968) che portò il partito a spaccarsi in due: una linea cosiddetta "rossa" e un'altra linea, cosiddetta "nera", quest'ultima capeggiata da Fosco Dinucci. È questa una lettura errata della storia del Pcd'I(m-l), perché sia questa frattura sia quelle che seguirono furono tutte dovute ad azioni condotte da personaggi (la storia li giudicherà) che a loro modo vedevano e consideravano il partito come "cosa e casa propria". Tutt'altra idea era stata quella di Antonio Gramsci nel 1921, come tutt'altra idea era quella di Fosco Dinucci nel 1966. Per quest'ultimo non c'entravano tanto i riferimenti internazionali (Mao ed Enver), pur necessari nel movimento delle alleanze internazionaliste, quanto invece importava molto il riferimento ideologico al pensiero e all'opera di Gramsci.
Proprio su questo terreno, per Fosco Dinucci la lotta ideologica e culturale era di fondamentale importanza. Nel rapporto che tenne al 4° Congresso nazionale del partito il 21-23 gennaio 1984 a Roma (Hotel Universo), disse che:
«Insieme con l'esperienza di lotta è necessario l'impegno continuo sul piano teorico, ideologico, culturale. La borghesia cerca di far passare lo sviluppo tecnologico come un “bene di tutti”. In realtà gli elaboratori, i calcolatori, i vari strumenti elettronici, manipolati da centrali al servizio dei monopoli, delle multinazionali, portano all'inquinamento della verità, a operare sulle coscienze, sull'opinione pubblica, nel senso di fabbricare “verità” sul falso, nell'interesse del capitalismo e dell'imperialismo. Nello stesso tempo si conducono campagne contro le ideologie, specificatamente contro l'ideologia marxista-leninista e comunque contro le concezioni progressiste. [...] Contro la pressione ideologica e culturale del mondo borghese e imperialista è oggi più che mai necessario opporre un impegno teorico strettamente unito all'esperienza di lotta, che leghi continuamente l'ideologia marxista-leninista della classe operaia alla realtà in sviluppo. Nel campo scientifico e tecnologico, anche quando non ve n'è consapevolezza, per andare avanti si applica il metodo materialista e dialettico. Così, per il progresso umano, il materialismo storico, interpretando le leggi di sviluppo della società, pone come necessaria e attuale la prospettiva della rivoluzione socialista. Occorre iniziativa, creatività, ma non nel senso revisionista di adattamento al presente, bensì nella prospettiva di trasformare la realtà per via rivoluzionaria. Occorre far conoscere il mondo per trasformarlo».
E, per ricordare il significato della nascita del Pcd'I(m-l), nel suo articolo Dieci anni di impegno militante del Partito comunista d’Italia (m-l), scrive:
«Il 15 ottobre 1966, giorno in cui fu proclamata la costituzione del Pcd’I(m-l), è ormai una data storica: di fronte al tradimento revisionista, gli autentici comunisti decisero di ricostruire il reparto di avanguardia cosciente e organizzato del proletariato italiano [...] Al congresso confluirono compagni che avevano partecipato con Gramsci alla fondazione del Partito comunista d’Italia nel 1921 e sostenuto l’adesione all’Internazionale comunista [...] e compagni che nel periodo della guerra partigiana si erano battuti per il legame tra lotta di liberazione e lotta per il potere popolare» (vd. «Nuova Unità», a. XIII, n. 38, 19 ottobre 1976).
E ancora, a proposito dell'ideologia marxista-leninista, il suo pensiero è chiaro. Nel libro La forza di essere comunisti, afferma che per essere comunisti in Italia significa non rinnegare l'origine dal partito di Gramsci, sorto a Livorno nel 1921, in contrapposizione all’opportunismo dei dirigenti del Partito socialista:
«chi è cosciente sa che questa scelta permise di continuare la lotta contro la dittatura fascista nelle più difficili condizioni della clandestinità - ciò che può fare solo un partito leninista sul piano ideologico, politico e organizzativo, come dimostra la storia -, fino alla guida della lotta armata di liberazione contro il nazifascismo durante la seconda guerra mondiale. [...] L'ideologia marxista-leninista significa: visione di classe, necessità del partito rivoluzionario della classe operaia./ Questi sono gli ideali comunisti: non un’utopia, ma oggettivo, scientifico esame dei problemi della società e loro realistica soluzione, sulla base dell’ideologia marxista-leninista, che esprime l’esperienza storica della lotta di classe, sulla base del materialismo dialettico e storico, come filosofia - afferma Marx - non solo per spiegare la realtà, ma anche per trasformarla» (suppl. a «Nuova Unità», a. XXIII, ottobre 1986).
Come chiarissimo è pure il suo pensiero sulla Rivoluzione d'Ottobre e l'influenza che essa ebbe sul Pcd'I(m-l). Scrive:
«Più trascorrono gli anniversari della Rivoluzione dell'Ottobre 1917, più risalta la coerenza del Partito comunista d'Italia (marxista-leninista) nel considerare la validità di quel fondamentale evento storico. Anche nei momenti della più aspra polemica contro il revisionismo kruscioviano (certuni volevano farci passare per antisovietici), distinguemmo tra degenerazione opportunista e valori permanenti dell'Ottobre, di cui il krusciovinismo era l'antitesi./ Abbiamo sempre ribadito l'attualità di questi valori, pur nella considerazione dei mutamenti intervenuti nel frattempo sulla scena mondiale. La Rivoluzione d'Ottobre abbatté il potere della borghesia in un grande paese come la Russia, spezzando così il fronte dell'imperialismo mondiale. Per la prima volta nella storia, andavano al potere gli operai e i contadini, gli oppressi e gli sfruttati, costituendo un punto di riferimento per il proletariato e le masse lavoratrici di tutti i paesi. Furono veramente "dieci giorni che sconvolsero il mondo". In ogni continente la classe operaia, con alla testa i comunisti, intensificò le lotte, guardando al Paese dei Soviet. Si svilupparono ovunque i partiti comunisti, soprattutto con il contributo della Terza Internazionale promossa da Lenin nel 1919, in contrapposizione ai partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale degenerati nel riformismo e divenuti complici della borghesia imperialista fino ad appoggiare le avventure guerrafondaie./ Alla Rivoluzione d'Ottobre, che aveva liberato le nazionalità già oppresse dal potere zarista, guardarono i popoli oppressi e sfruttati dal dominio coloniale dell'imperialismo. Si intensificarono in tutti i continenti le lotte di liberazione nazionale. Sotto la guida del Partito comunista bolscevico, con alla testa prima Lenin, poi Stalin, i quali dettero sempre una primaria importanza all'internazionalismo proletario, l'Unione Sovietica divenne (come fu dichiarato apertamente) una base sicura e potente del movimento rivoluzionario mondiale. Con tale impegno il suo prestigio si diffuse in modo tale che non solo i proletari, ma anche scienziati e personalità di ogni campo della cultura, specialmente negli anni '30, si recavano in Unione Sovietica tornando pieni di entusiasmo per avere potuto osservare - così dichiarava la maggior parte - lo sviluppo tecnico-scientifico e culturale senza più condizionamento della corsa al profitto, come nei paesi capitalisti. [...] Il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista), nel giudizio molto positivo sull'edificazione socialista in quel periodo, ha indicato, fra gli errori più gravi, l'aver concentrato il potere in pochi dirigenti, mentre la dittatura del proletariato, che deve essere inesorabile contro i nemici di classe, deve nel contempo promuovere la più ampia democrazia socialista per le masse. Da ciò sono derivati atti come quello di considerare traditori al servizio del nemico e trattare come tali dei semplici dissidenti. Ciò ha favorito lo sviluppo di una certa burocrazia che, Stalin vivente, non ha osato contrapporsi alla politica leninista del Pcus, come ha fatto invece dopo la sua morte, trovando in Krusciov l'espressione del proprio opportunismo (vd. F. Dinucci, La Rivoluzione d'Ottobre e il Pcd'I(m-l), in «Nuova unità», novembre 1989).
Fosco Dinucci morì nella sua casa di Pontasserchio il 28 aprile 1993, dopo un intervento chirurgico ad una ernia inguinale. Ricordo ancora quel triste giorno. Io e Ennio Antonini arrivammo a Pontasserchio alle 14. In fondo a via Vittorio Veneto, scorgemmo il compagno Angelo Cassinera più altri compagni della direzione del partito. La bara era ricoperta dalla bandiera rossa con falce e martello della Brigata "Garibaldi", che a suo tempo era stata di Alberto Bargagna, altro partigiano combattente e compagno di Fosco. La camera ardente era stata allestita con un'altra grande bandiera rossa con falce e martello inscritti in una stella a cinque punte gialla, simbolo del Pcd’I(m-l). Diverse furono le orazioni funebri, ma qui mi sembra importante riportare il discorso (L’insegnamento teorico e politico di Fosco Dinucci.) di Pietro Scavo, già membro dell'Ufficio politico e della segreteria del Pcd'I(m-l), il 27 giugno 1993 al convegno di Milano organizzato per la costituzione del Centro Lenin Gramsci (nome dato all'associazione dallo stesso Fosco):
«La vita del compagno Fosco Dinucci è un esempio di infinita dedizione alla grande causa della classe operaia e della realizzazione del socialismo. In lui si fondeva la teoria rivoluzionaria con l’attività pratica. La figura del compagno Fosco riuniva in sé il combattente comunista di prima linea e lo studioso teorico, l’organizzatore del partito comunista e l’ardente propagandista tra le masse, l’instancabile studioso e l’organizzatore delle lotte. Nella sua persona egli incarnava le migliori virtù della classe operaia e delle masse lavoratrici del nostro paese: un infinito odio verso tutti i nemici del proletariato e una fede incrollabile verso la vittoria del comunismo. In Fosco la pratica rivoluzionaria si fondeva con il rigore teorico-scientifico, l’organizzazione e il rafforzamento del partito era inscindibile dall’appoggio alle lotte e all’iniziativa delle masse. [...] Da coerente marxista-leninista, il compagno Fosco Dinucci è stato in prima fila contro il revisionismo moderno. Egli, tenendo sempre presente i principi leninisti, diceva spesso che "nelle condizioni dell’imperialismo, fase suprema del capitalismo, la classe operaia non può rimanere a lungo senza il suo partito rivoluzionario". Con questa convinzione, si è battuto ed ha lavorato per organizzare il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)./ Fin dalla sua nascita il Pcd’I(m-l) ha dovuto condurre, con alla testa il compagno Fosco, una lotta ideologica, politica ed organizzativa contro il “sinistrismo” bordighista e l’opportunismo revisionista. Il sinistrismo e l’opportunismo hanno dimostrato di essere altrettanti pericolosi l’uno quanto l’altro e di avere sovente le stesse radici, ad esempio nella mancanza di fiducia nella forza e nella capacità della classe operaia, delle masse lavoratrici e della loro lotta, nella sottovalutazione delle proprie forze, nella sopravalutazione di quelle del nemico, nel disprezzo verso i milioni di lavoratori non ancora conquistati all’influenza socialista, nell'incapacità di sviluppare un paziente, tenace, perseverante, largo lavoro di massa./ L’esperienza ha dimostrato che un partito comunista non lo si crea in un giorno e non lo si crea una volta per sempre. Per creare un partito comunista capace veramente alla sua funzione d’avanguardia, di portare non solo le masse lavoratrici alla lotta, ma di portarle al successo e alla vittoria, occorrono anni e decenni di intenso, continuo e paziente lavoro. [...] Fin dalla sua nascita il Pcd’I(m-l) ha dovuto condurre, con a capo il compagno Fosco, una lotta ideologica, politica e organizzativa contro l’estremismo infantile e contro l’opportunismo revisionista. L’opportunismo, diceva spesso, tende a sciogliere il partito comunista nelle organizzazioni di massa e metterlo alla coda degli alleati nei fronti./ Il problema dell’identità e dell’autonomia è fondamentale per il partito comunista. Come tale, esso è anche uno dei problemi al centro della lotta politico-ideologica nel movimento operaio italiano. L’atteggiamento nei confronti dell’autonomia del partito comunista è la pietra di paragone per ogni partito che pretende di difendere gli interessi dei lavoratori, è l’espressione fondamentale del suo carattere comunista. [...] Nelle condizioni del “fallimento del socialismo” nell’Urss e altri paesi dell’Est europeo, i liquidazionisti, assieme agli ideologi borghesi, sostengono che i partiti comunisti devono rinunciare al loro nome e alla loro autonomia. Lo scopo di queste argomentazioni borghesi e riformiste è di allontanare la classe operaia dalla prospettiva del socialismo, di trattarla alla stregua di una forza piccolo borghese, la quale deve lottare all’interno della società borghese. [...] L’autonomia della classe operaia non è un’idea campata in aria, ma una legge obiettiva, che deriva dalle stesse condizioni economiche e sociali di tale classe, dai suoi interessi e scopi fondamentali, dal fatto che essa è la protagonista principale del nuovo ordinamento sociale comunista, è armata della teoria del socialismo scientifico ed ha il proprio stato maggiore dirigente politico, il partito comunista./ Lenin collegava l’idea dell’autonomia della classe operaia con la creazione del partito comunista. Senza la funzione dirigente del partito comunista l’autonomia e l’obiettivo strategico della classe operaia non sono che un’espressione vuota di senso. [...] Il compagno Fosco Dinucci diceva spesso che "la forza del partito comunista sta in primo luogo nel fatto che esso è composto in grande maggioranza da operai, che esso ha stretti legami con la classe operaia e con le masse lavoratrici". [...] Il carattere proletario del partito comunista è determinato, innanzitutto e soprattutto, dall’ideologia che lo ispira e dalla politica che esso segue, se queste rispondono agli interessi vitali della classe operaia e delle masse popolari e progressiste./ Ma questo è solo un lato del problema. L’altro, come diceva spesso il compagno Fosco Dinucci, è che il partito comunista, essendo la parte più avanzata e più cosciente della classe, deve essere proletario non solo per la sua ideologia, ma anche per la composizione delle sue file. [...] L’esperienza storica conferma che uno dei principali motivi della degenerazione di molti partiti “comunisti” in partiti socialdemocratici è proprio l’aver aperto le porte, soprattutto dei loro organi dirigenti, all’incontenibile afflusso degli elementi piccolo-borghesi: aristocrazia operaia, intellettuali democratico-borghesi, burocrati sindacali e così via. Perciò, il compagno Fosco considerava l'incessante proletarizzazione del partito, e specialmente degli organi dirigenti a ogni livello, come un problema, al quale dedicava un’attenzione costante. In ciò egli vedeva una delle vie e delle garanzie più efficaci per l’incessante rafforzamento del partito comunista, per premunire il partito contro gli influssi della pressione borghese e riformista e, nello stesso tempo, per rinsaldare i legami con la classe operaia, per migliorare e arricchire il lavoro del partito al suo interno./ Proprio per questi motivi vanno combattute le concezioni non marxiste, opportuniste e anarcosindacaliste. [...] Ciò non significa affatto che si debbano chiudere le porte del partito agli elementi sani degli altri strati sociali, ma l’obiettivo da conseguire è che le porte siano aperte innanzitutto agli operai, alla classe rivoluzionaria e affossatrice del capitalismo, i cui interessi generali sono rappresentati dal partito comunista. Per quanto riguarda il partito di quadri e di massa, il problema è che il partito deve mirare più alla qualità che alla quantità dei suoi militanti, affinché entrino in esso gli elementi rivoluzionari, fedeli e attivi, sperimentati nel fuoco dello scontro di classe. [...] Dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa, i revisionisti intrapresero una campagna liquidazionista contro il partito della classe operaia, cercando di dimostrare che era un’organizzazione da “archiviare”. Essi proponevano di sostituirlo con una vasta associazione apartitica, la “Unione operaia”. [...] Se allora i marxisti rivoluzionari non avessero sconfitto politicamente i liquidatori, la classe operaia, nell’imminente periodo di slancio rivoluzionario che seguì, si sarebbe trovata disorganizzata e priva della sua guida combattiva, il partito bolscevico. Portare avanti e spingere fino in fondo la lotta contro i liquidazionisti, significa ricordarsi che questa lotta è lo strumento più sicuro per la creazione di un autentico partito comunista. Infatti, non si può creare un vero partito comunista se i comunisti rinunciano alla loro autonomia organizzativa, politica e ideologica, e confondendosi con la borghesia in un cosiddetto polo democratico. Nostro compito è lavorare ogni giorno per creare il partito, per rafforzare lo schieramento della classe operaia e le sue alleanze, per sviluppare una lotta più ampia, unitaria, decisa con la convinzione che i comunisti hanno la forza di vincere. Questo è l’insegnamento che ci ha lasciato il compagno Fosco Dinucci».
E da parte sua il compagno Mario Geymonat, ricordando Fosco nell'aprile 1994, ad un anno della scomparsa, ne esalta l'esempio politico e morale. Scrive:
«È ormai un anno che il compagno Dinucci ci ha lasciato, e con lui se ne è andata una parte tanto importante della nostra esperienza di vita, quella dei molti che lo hanno frequentato e hanno lottato al suo fianco. L'avevo conosciuto nel lontano 1963, quando per la prima volta ci eravamo incontrati nella sede delle Edizioni Oriente allora appena aperte a Milano. Era venuto alla guida di un folto gruppo di compagni toscani che dentro il Partito Comunista Italiano criticavano decisamente Krusciov e Togliatti e che desideravano approfondire quelle che erano allora le posizioni dei comunisti cinesi e albanesi. Subito Fosco si impose come il compagno più adatto a guidarci nel cammino difficile per trasformare le nostre speranze in obiettivi concreti, dalla fondazione di «Nuova Unità» nel 1964 alla proclamazione del Partito Comunista d'Italia (marxista-leninista) nel 1966 a Livorno, dalla attiva partecipazione al movimento antimperialista che si sviluppava impetuoso in quegli anni in Italia e nel mondo al lavoro per la formazione dei primi "Comitati di lotta" nelle fabbriche del nostro paese, dalle riflessioni seriamente autocritiche sui limiti del "movimento marxista-leninista" fino all'esperienza breve ma entusiasmante del quotidiano "Ottobre". Come quadro politico Dinucci era profondamente internazionalista ma, cosciente della responsabilità peculiare che aveva nel nostro paese, insisteva sempre con forza sulla necessità di un serrato dibattito per fare avanzare la lotta./ Ciò che ora mi preme soprattutto ricordare di lui è il modo in cui egli aborriva dal conformismo e dall'adulazione. Diversamente da altri compagni che dirigevano in quegli anni i gruppi marxisti, Fosco non amava chi gli dava sempre ragione e preferiva discutere con i compagni con cui poteva non andare a priori d'accordo. Io ero coscientemente fra questi, e la costante ironia sui miei modi forse un po' rilassati non si distaccava in noi dal piacere di una vera autonomia intellettuale. [...] Un'altra caratteristica peculiare e importante di Fosco era la sua ferma convinzione della necessità di una posizione culturale corretta. Condusse egli stesso una serie di lucide analisi delle contraddizioni del mondo e del movimento operaio ed esortava con passione i compagni a lavorare in quest'ambito. Aveva riunito nella sua grande casa nella campagna pisana i volantini e le testimonianze delle lotte a cui aveva partecipato direttamente o che conosceva in concreto e operava testardamente a che non andasse disperso il patrimonio di analisi di tante battaglie concrete. Ma soprattutto si impegnò sui classici del pensiero marxista e li leggeva insieme alle opere dei maggiori filosofi e scienziati borghesi, guardando ad essi con rigore critico ma sempre con invidiabile apertura mentale. [...] L'esperienza di vita lo aveva portato a richiedere molto a tutti, prima di tutto a se stesso. Come un guerriero antico conduceva uno stile di vita semplice e austero, tutto il contrario dei revisionisti che scimmiottavano i modi di vita borghesi. Amava viaggiare per l'Italia sui treni e mischiandosi al popolo e nelle lunghe e tormentate riunioni si nutriva solamente dei magri panini che gli preparava la fedele compagna Adriana. Era lieto che la sua vita lo avvicinasse frequentemente e fraternamente ai compagni più umili, ritenendo a ragione che i comunisti hanno sempre da imparare molto da loro./ In questi ultimi mesi la situazione in Italia e nel mondo si sviluppa in modo drammatico e dobbiamo fare gli sforzi più seri per comprenderne a fondo i motivi e le linee. Per questo noi vecchi compagni sentiamo ancora di più la mancanza della passione civile di Fosco, e io sono sicuro che la lotta reale ci imporrà ancora spesso di ripensare al suo esempio morale».
Intervista a Fosco Dinucci
Sono passati 38 anni da quando Fosco Dinucci non c'è più. In questo tempo trascorso e in un periodo in cui l'umanità è stremata dalla pandemia da Covid-19, gli eventi accaduti sono tutti degenerati a causa del più spaventoso squilibrio economico e sociale: da una parte un piccolo gruppo di ricchi che diventano ogni giorno che passa sempre più ricchi e dall'altra un'intera umanità diseredata di ogni bene. Tutto ciò è accaduto perché l'imperialismo (Stati Uniti, NATO e loro accoliti) hanno fomentato e continuano a farlo guerre globali e "regionali" in nome di un loro dio sovrano: il profitto. L'egoismo dell'imperialismo USA ha provocato un impoverimento globale delle masse lavoratrici di ogni angolo del pianeta. Nella sua analisi marxista-leninista Fosco Dinucci previde questo scenario e incitò i compagni e le compagne a non smettere di lottare perché, prima o poi, l'imperialismo sarebbe stato sconfitto. È quanto egli ribadisce in questa intervista rilasciata pochi mesi prima di morire e pubblicata su «Nuova Unità» (anno II, n. 9, ottobre 1993, pp.8-9).
Maurizio Nocera: Quando hai iniziato a fare politica? Quanti anni avevi, quale attività svolgevi? Come sei giunto a partecipare alla lotta partigiana contro i nazifascisti durante la seconda guerra mondiale?
Fosco Dinucci: Fin dalla più giovane età mi trovai a “fare politica”, intendendo con questo modo di dire l’impegno di lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento, per la libertà e la giustizia sociale, per la solidarietà fra i popoli. In pieno regime fascista, mentre dure erano le condizioni dei lavoratori e Mussolini scatenava la guerra colonialista contro l’Etiopia (1935), io e altri compagni meno giovani (avevo appena quattordici anni) costituimmo una cellula comunista clandestina. Questa cellula aveva periodici contatti con compagni collegati con il centro del Partito, fra cui Concetto Marchesi. La cellula operava nella zona di Pisa e dintorni, particolarmente a Pontasserchio, mio paese nativo, svolgendo attività di propaganda e di agitazione contro il fascismo fra gli operai, i braccianti, gli studenti, i disoccupati, gli artigiani e i mezzadri./ Per l’educazione politico-ideologica e per la diffusione degli ideali comunisti ci fu di grande aiuto lo studio de Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e Stato e rivoluzione di Lenin, due tra i pochi libri che circolavano clandestinamente. Nello stesso tempo venivano curati la costituzione di altre cellule nella nostra zona e un migliore coordinamento dei contatti con altre zone. La maggior parte di questi militanti confluirà nelle file partigiane durante la seconda guerra mondiale. Per me, e così per altri, come gappista e come comandante partigiano, l’esperienza della guerra di liberazione fu importante anche per la formazione del carattere./ Contribuì decisamente alla presa di coscienza comunista e all’impegno di lotta la riflessione sulle condizioni drammatiche della popolazione, condizioni di miseria e mancanza di libertà a cominciare dal divieto del diritto di sciopero. Altro motivo fondamentale di riflessione la politica imperialista di guerra del fascismo, quando i capitalisti, a cominciare dagli Agnelli padroni della Fiat, realizzavano enormi profitti sul sangue del popolo italiano. D’altra parte ci domandavamo come fosse possibile che centinaia di migliaia, milioni di uomini andassero a uccidere e farsi uccidere gli uni contro gli altri. Si riproponeva il problema della coscienza di classe. Per questo, nel periodo 1936-1939, eravamo impegnati particolarmente nell’appoggio alla Repubblica Spagnola aggredita dal fascismo./ Per la mia età, ebbe molta importanza l’ambiente familiare di tradizione laica e libertaria: il nonno garibaldino, il padre antifascista perseguitato dalla dittatura mussoliniana. Nonostante gli inviti minacciosi, rifiutò di far iscrivere i figli alle organizzazioni fasciste. Per coerenza laica, non fece sottoporre i figli alle solite pratiche religiose (battesimo, cresima, ecc.) con il valido motivo di lasciarli decidere da sé quando fossero cresciuti./ Per l’esempio di intransigenza morale e politica, per la dedizione di compagni come Gramsci, per gli ideali comunisti, abbiamo trovato in noi la forza di resistere ai più duri interrogatori dei carnefici nazifascisti. Ecco l’autentica Resistenza contro i falsificatori della Storia!/ Come ho già detto, l’ambiente familiare contava molto nella formazione del carattere comunista. Sono particolarmente grato a mio padre e a mia madre per l’esempio di dirittura morale e politica che mi hanno dato. Farei torto alla verità se non ricordassi anche la mia compagna che, allora quindicenne, si impegnava in compiti pericolosi come collegamenti e trasporto di mezzi bellici. Riferisco questi fatti non per esaltare la mia famiglia, ma per sottolineare l’importanza che ha per un militante comunista fare affidamento su una famiglia concorde per la lotta. Con questa educazione ho lottato contro i difetti, soprattutto lo schematismo. Con questa educazione sono fiero di avere operato per tutta una vita concependo la lotta politica come una missione, al punto di poter dire sul piano economico: «Sono rimasto povero».
M. N.: Alla fine degli anni ‘40 e per buona parte degli anni ‘50, dopo essere entrato nel Pci, tu hai svolto l’attività di docente presso le scuole quadri del partito, compresa quella centrale di Frattocchie. Come ricordi quel periodo?
F. D.: Prima di tutto una precisazione. Non direi di essere entrato nel Pci alla fine degli anni ‘40. Come si può dedurre da quanto ho detto prima, mi trovai impegnato in una organizzazione del Pcd’I fin dal 1935. Per la mia attività alla Scuola centrale quadri e altre scuole di partito, ho un ricordo che non esito a chiamare appassionato ed esaltante. Pur fra errori, specialmente di schematismo, c’era uno sforzo fiducioso (oggi qualche mala lingua dice: «illusione») di contribuire alla formazione dell’uomo nuovo. Si curava il legame fra lo studio dell’ideologia (soprattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin, Gramsci) e l’iniziativa per la lotta, il legame fra l’impegno politico-organizzativo e la formazione del carattere comunista. A tale scopo veniva curato particolarmente l’esercizio della critica e dell’autocritica con riunioni del collettivo e con un giornale murale. Era fatto anche il lavoro fisico, pur nei limiti consistenti nella manutenzione della Scuola. Da tutte queste attività emergevano pregi e difetti dei vari compagni: fra i difetti, soprattutto l’individualismo. E non ci sbagliavamo, se l’individualismo è stato uno dei fattori determinanti della degenerazione revisionista da Krusciov a Gorbaciov./ Ecco perché l’esperienza della Scuola centrale, per me e altri compagni, è stata - ripeto - appassionata ed esaltante. Le questioni affrontate sono vive ed attuali: si pongono oggi nel travaglio del mondo comunista.
M. N.: Nel 1953 muore Stalin - nel 1956 viene celebrato a Mosca il XX Congresso del Pcus con al suo interno il tanto discusso Rapporto segreto letto da Krusciov. Come hai vissuto questo periodo?
F. D.: La notizia della morte di Stalin lasciò attonito il mondo (credo di non esagerare ad esprimermi in questa maniera). Centinaia di milioni di oppressi e sfruttati di tutti i continenti sentirono di aver perduto uno tra i più decisi sostenitori della loro causa. Personalità della politica, della cultura e di altri campi resero omaggio a Stalin con espressioni che, nella maggior parte dei casi, escludevano l’obbligo di tipo rituale./ Sandro Pertini è stato rimproverato per aver scritto un articolo su Stalin combattente della pace. Ma è proprio da questo articolo che viene confermata la giusta visione della lotta per la pace come lotta antimperialista con la mobilitazione delle masse popolari di tutto il mondo. Su Stalin si è parlato e si parlerà molto: ha inciso profondamente nella Storia. L’edificazione del socialismo in un solo paese; la collettivizzazione dell’agricoltura; l’industrializzazione a tappe forzate: si può dissertare su questi e altri problemi, come il trattamento di certi oppositori quali nemici da condannare. Però bisogna partire dai fatti concreti e dal periodo in cui si verificano. Questi portarono alla prova decisiva della seconda guerra mondiale, quando l’Unione Sovietica venne aggredita dalla Germania nazista. Non solo l’Armata Rossa, ma tutti i popoli dell’Unione Sovietica si impegnarono in una eroica resistenza che bloccò il nemico presso Mosca, Leningrado e Stalingrado. Le armate naziste, che fino ad allora erano passate di successo in successo sui fronti dell’Europa occidentale, sul fronte orientale subirono sconfitte che mutarono il corso della guerra. L’Armata Rossa passò al contrattacco e, di vittoria in vittoria, giunse a Berlino./ Pur con il concorso della coalizione antifascista, l’Urss fu il fattore decisivo della vittoria. È incontestabile che con più di venti milioni di caduti i popoli sovietici, l’Armata Rossa, sotto la guida del partito diretto da Stalin, hanno salvato l’umanità dal dominio hitleriano./ Negli anni ‘30 l’Unione Sovietica era punto di riferimento della scienza, della cultura, delle arti progressiste. Da tutto il mondo affluivano e tenevano convegni a Mosca personalità d’ogni ramo del sapere. Ripartivano entusiasti, perché (così si esprimevano) avevano trovato un paese ove la scienza e la tecnologia erano al servizio di tutta la società, non strumento per il profitto di pochi capitalisti./ Per quanto riguarda la lotta dei comunisti, gli anni ‘20 e ‘30, per impulso della Terza Internazionale costituita su iniziativa di Lenin nel 1919, gli anni ‘20 e ‘30 - dicevo - furono di grande sviluppo sia per l’impegno rivoluzionario sia nei movimenti di liberazione e antifascisti. Particolarmente interessante fu l’esperienza del fronte popolare in Francia./ Nel 1956, con il XX° Congresso del Pcus, si manifesta clamorosamente il krusciovinismo come revisionismo moderno. Non fu una sorpresa per me ed altri compagni che avevano studiato il continuo rigurgito revisionista nel movimento comunista ed operaio, fin dai tempi di Lenin, che ne fece oggetto di molte sue critiche. Negli Stati Uniti, all’inizio della seconda guerra mondiale, il partito comunista fu dominato dal revisionismo del suo segretario Browder, il quale predicava l’integrazione del socialismo nel sistema capitalista. Non fu una sorpresa per chi, come me, aveva avuto dissensi nel Pci su vari aspetti della politica togliattiana, come l’amnistia ai fascisti e la votazione dell’art. 7 che ha accolto nella Costituzione gli accordi e i patti lateranensi stipulati da Mussolini con il Vaticano. Non erano queste manifestazioni di revisionismo opportunista?/ Nell’Urss, dopo la morte di Stalin, ci furono scontri in seno al gruppo dirigente, la cui natura rimase quasi completamente segreta. Comunque, per gli osservatori attenti, v’era la sensazione che si volesse mutare la politica staliniana. Infatti al XX° Congresso Krusciov fa due rapporti: uno ufficiale; l’altro “segreto”, riservato apparentemente ad alcuni dirigenti sovietici e di partiti stranieri, in realtà fatto arrivare ai servizi di informazione occidentali. Verrà pubblicato dalla stampa statunitense con alcuni rifacimenti per rendere ancora più gravi le accuse a Stalin, con lo scopo infine di denigrare gli ideali comunisti./ Aldilà di enunciazioni puramente formali sui principi leninisti, Krusciov cerca di togliere a questi principi ogni contenuto rivoluzionario: Non più l’imperialismo come causa delle guerre, ma capi imperialisti con volontà di pace; non più dittatura del proletariato. ma un non definito “Stato di tutto il popolo”. Gli stessi attacchi a Stalin sono rivolti a denigrare e destabilizzare la dittatura del proletariato in Urss. Da allora, il gruppo dirigente, da Krusciov a Gorbaciov, si è posto come casta privilegiata staccata dalle masse, fino al crollo non del socialismo, ma di regimi revisionisti camuffati da “socialismo reale”.
M. N.: Subito dopo il XX° Congresso del Pcus inizia in tutto il mondo un movimento di presa di coscienza antirevisionista (Movimento marxista-leninista). Anche in Italia si vanno organizzando i primi gruppi m-l. Tu sei stato uno dei primi organizzatori di questo movimento. Nel 1966 nasce a Livorno il Pcd’I(m-l), del quale tu divieni sin da allora segretario generale. Fu necessario ricorrere a quella scelta organizzativa, e fu essa atto di scissione, oppure una misura inevitabile per cercare di riprendere il discorso unitario per un nuovo slancio della lotta dei comunisti?
F. D.: Per me ed altri compagni il XX° Congresso fu la conferma del pericolo revisionista. Pericolo tanto maggiore in quanto proveniente dal più autorevole partito comunista al potere, il partito di Lenin e di Stalin (per dirla in poche parole semplici, ma incisive). Così quasi tutti i partiti comunisti caddero nelle mani di dirigenti revisionisti, appoggiati dalla direzione kruscioviana. Di contro, si opposero decisamente, fra quelli al potere, il Partito comunista cinese e il Partito del lavoro d’Albania. Altri, come quello vietnamita, non presero posizione. Di fatto la Cina e l’Albania divennero il punto di riferimento per i marxisti-leninisti di tutto il mondo, i quali si organizzarono sino a fondare i partiti marxisti-leninisti./ A questo proposito occorre sfatare una leggenda fatta circolare anche da compagni in buona fede, in realtà inventata dalla propaganda borghese e revisionista. Si è voluto dare ad intendere che i partiti marxisti-leninisti sarebbero stati organizzati nei vari paesi per iniziativa del Partito comunista cinese. Che ciò non corrisponda alla realtà si può arguire dal fatto che la maggior parte dei gruppi, che nei vari paesi costituirono i partiti m-l, avevano cominciato la lotta antirevisionista ben prima che si pronunciasse apertamente lo stesso Partito comunista cinese. Così avvenne per il nostro partito, il Partito comunista d’Italia (m-l). Non stiamo qui a rifare la storia di queste vicende: essa è contenuta in un agile volume (La forza di essere comunisti) pubblicato nel 1986 per il ventesimo anniversario di fondazione del Partito. Questa avvenne a Livorno nell’Ottobre del 1966./ Mi domandi con altre parole: fu scissione per la scissione oppure scissione per ricreare una più forte unità? La risposta è: fu una misura organizzativa con lo scopo di ricreare una più forte unità. Nella maggior parte delle zone d’Italia, ove esistevano gruppi m-l che sarebbero confluiti a Livorno, la lotta antirevisionista si era sviluppata all’interno delle varie organizzazioni del Pci. La risposta dei burocrati dirigenti del Pci fu drastica: misure disciplinari fino all’espulsione. Così accadde a me che volevo sviluppare la lotta antirevisionista nel Pci e che avevo ottenuto notevoli risultati, fra l’altro, l’appoggio di una decisa maggioranza dell’assemblea della mia sezione. Era un periodo di grandi lotte in Italia e nel mondo intero, in primo luogo per l’appoggio all’eroico Vietnam aggredito dall’imperialismo statunitense. C’era la minaccia dell’invasione di Cuba sempre da parte dell’imperialismo Usa. Come insegna Lenin, non si può lasciare un paese senza il partito rivoluzionario della classe operaia. Così ci voleva un partito che desse anche in Italia un contributo per la costruzione di un'Internazionale marxista-leninista.
M. N.: Come segretario generale del Pcd’I(m-l) ti sei incontrato con Mao Zedong presidente del Partito comunista cinese, e con Enver Hoxha, primo segretario del Partito del lavoro d’Albania. A quanto sembra, sei l’unica personalità politica italiana ad avere questa esperienza. A distanza di anni dalla loro morte, che giudizio dai del loro operato? Quali i loro meriti, quali i loro limiti?/ Tu ti sei sempre battuto e prodigato per la riorganizzazione del Movimento comunista internazionale, per la costituzione di una nuova Internazionale comunista. Alla luce dell’attuale situazione nel mondo, di quanto è accaduto nell’Est europeo, ed in particolare nell’Unione Sovietica, quali sono secondo te i possibili sviluppi, le prospettive?
F. D.: Tu mi chiedi di esprimere un giudizio sull’operato, sui meriti e i limiti di Mao Zedong e di Enver Hoxha. Al limite, per essere esaurienti, bisognerebbe fare due biografie. In una conversazione così alla buona, come questa, fatta per rievocare qualche esperienza, mi posso limitare ad alcune riflessioni. Tutt’e due, oltreché grandi dirigenti politici comunisti, sono stati capi militari. Nelle conversazioni con compagni di altri paesi tendevano a illustrare queste esperienze. Enver Hoxha la lotta di liberazione in Albania con espressioni di stima per i soldati italiani che nel settembre del 1943 andarono con i partigiani albanesi, per combattere contro il nemico nazista. Mao Zedong aveva guidato la lunga marcia e tutte le operazioni militari, fino alla completa sconfitta di Chang Kai Shek e alla liberazione della Cina nel 1949. Non so se anche tali esperienze abbiano contribuito a fare di questi dirigenti degli uomini semplici. Si sentiva subito, appena cominciava un incontro, questa semplicità tra compagni. Una volta, all’inizio dell’incontro con Mao, stringendogli la mano, mi sentii dire: «Tu sei troppo giovane». Alludendo all’età avanzata di quasi tutti i dirigenti cinesi, risposi: «Tutto è relativo: dipende dall’osservatore (avevo allora quasi cinquan’anni)». E non solo negli incontri: tutta la loro vita, da quella familiare a quella pubblica, dava il senso della dedizione completa alla causa della rivoluzione, degli ideali comunisti./ Non è questa l’occasione per affrontare un giudizio sulle opere teoriche dei due dirigenti. Comunque sono fonte di insegnamento. Per quanto riguarda i limiti, nei colloqui sulla situazione dei vari continenti, si poteva costatare la mancanza di una sufficiente conoscenza degli ingranaggi del capitalismo dell’Europa occidentale. Anche Enver manifestava una certa carenza, ma attenuata dall’essere stato alcuni periodi in Francia e in Belgio. Il punto d’approdo di ogni conversazione era l’internazionalismo proletario. A questo proposito debbo dire di aver notato un notevole divario tra le enunciazioni di principio e l’impegno per metterle in atto. Quando io facevo considerazioni per dimostrare l’esigenza di ricostruire l’Internazionale Comunista, i dirigenti cinesi affermavano che i problemi si affrontavano meglio con incontri bilaterali che multilaterali. I dirigenti albanesi erano più aperti sulla questione dell’internazionalismo proletario, ma sulla prospettiva di un’organizzazione mondiale si mostravano molto cauti. Era abbastanza evidente che le loro preoccupazioni provenivano da esperienze negative, come quella di non essere stati invitati a far parte del Cominform nel 1947. Con queste condizioni soggettive poco favorevoli, difficile era il lavoro per costruire una struttura organica corrispondente alle affermazioni di principio. Tra gli altri partiti fratelli, comunque, circolava questa considerazione: c’è un’Internazionale socialdemocratica; c’è un’Internazionale liberale; c’è un’Internazionale democristiana legata alla Chiesa cattolica; e così via. Perché non deve esserci un’Internazionale comunista?/ Oggi, con il crollo dei regimi revisionisti in Urss e negli altri paesi dell’Est europeo, occorre creare legami organici tra tutte le forze comuniste: partiti leninisti al potere; partiti e gruppi leninisti sorti dallo sfacelo del revisionismo nell’Europa orientale; partiti leninisti del mondo capitalista e del “Terzo mondo”. Le recenti esperienze negative del movimento comunista e operaio internazionale devono essere di insegnamento per i militanti. Compete al partito, in ogni paese, di essere il reparto di avanguardia del proletariato, trovando nei Consigli di fabbrica la più valida base per l’unità della classe operaia, per un fronte antifascista-antimonopolista. Sul piano mondiale l’Internazionale Comunista va ricostruita come il nucleo dell’unità della classe operaia al di sopra delle frontiere, unità cementata con il legame fraterno e incentrata sui Consigli di fabbrica, a cominciare da quelli delle multinazionali dei vari continenti, per un vasto fronte antimonopolista-antimperialista, per la pace, per la prospettiva rivoluzionaria.
M. N.: Nel settembre 1991 il Partito comunista d’Italia (m-l), con il suo 6º Congresso (straordinario) si è sciolto e gran parte dei suoi militanti sono confluiti nel Movimento (oggi partito) della rifondazione comunista. Complessivamente quindi il Pcd’I(m-l) per 25 anni si è battuto nella realtà di classe italiana e internazionale. Che giudizio dai di questa esperienza e che cosa pensi, rispetto all’attuale situazione, dell’unità dei comunisti e del partito leninista?
F. D.: Per rispondere alle questioni poste dalla domanda, non occorre che io parli di tutto, avendo «Nuova Unità» già fatto un ampio e chiaro resoconto sui lavori del 6º congresso (straordinario) del Pcd’I(m-l). Sulla base di questo resoconto, anzi almeno dei documenti del 5º congresso, si possono sviluppare alcune considerazioni sullo scioglimento del Partito e sulle prospettive di Rifondazione comunista. Il Pcd’I(m-l) si è sempre battuto per l’unità dei comunisti, pur facendo talvolta errori di settarismo nei confronti del partito revisionista. Abbiamo affermato di essere pronti a misure organizzative, come l’autoscioglimento, a condizione di aver un più forte partito leninista, secondo gli insegnamenti di Gramsci e gli sviluppi attuali della lotta di classe. Dobbiamo dire, come sempre con estrema franchezza, che le aspettative mie e di molti miei compagni sono state deluse. Certamente non pretendevamo che al congresso costitutivo del Partito della rifondazione comunista nascesse un partito leninista perfetto. Anzi, sciogliendo il Pcd’I(m-l) assai prima del congresso di rifondazione, pur non senza dubbi, abbiamo voluto esprimere nei fatti tutta la nostra volontà unitaria. Eravamo stati sollecitati da qualche massimo dirigente di Rifondazione [Armando Cossutta, n.d.i.], il quale escludeva qualsiasi discriminazione nei confronti del Pcd’I(m-l). Noi non abbiamo fatto come altri, che hanno contrattato la loro adesione con posti di direzione e in Parlamento. Noi abbiamo ascoltato soltanto la nostra coscienza di comunisti. Eravamo fiduciosi di contribuire alla costruzione di un partito leninista con una linea politica che, mentre difende gli interessi immediati del popolo, prospetti la rivoluzione per l’abbattimento della società borghese, per una nuova società socialista, per il comunismo. E si deve cominciare formando la coscienza rivoluzionaria. Invece, che cosa sta accadendo? Che Rifondazione è rimasta movimento, nonostante che si sia definita partito. Movimento con tutti gli aspetti negativi che questo comporta, come la militanza approssimativa e l’organizzazione spontaneistica alla periferia, (circoli, ecc.), mentre il centro si riserva ogni decisione che conta. Inoltre il carattere di movimento favorisce le aggregazioni elettorali. Questa sembra la massima preoccupazione dei dirigenti. In Rifondazione convivono diverse linee politiche: quella demoproletaria; quella Psiup-Pdup, quella berlingueriana e quella cossuttiana, la meno lontana dal marxismo-leninismo e per questo la più attaccata. Si aggiungano vari dirigenti trotzkisti e il quadro è completo./ Ma questo - ripetiamo - è un movimento, non un partito. Ciò si riflette sul settimanale «Liberazione» che, pur fatto discretamente per alcuni versi, manca di una vera e propria linea politica. E i marxisti-leninisti? Come sempre, si sono messi al lavoro in Rifondazione senza chiedere nulla. Hanno dato un contributo positivo alla base, con responsabilità limitate all’ambito strettamente locale, perché discriminati. Si pensi che neppure un marxista-leninista c’è fra gli oltre duecento membri del Comitato politico nazionale. Si aggiunga che i massimi dirigenti hanno persino evitato di citare il marxismo-leninismo e il nostro partito. La questione è ideologica e politica. Si lascia Rifondazione senza l’ideologia della classe operaia, senza una linea politica rivoluzionaria. Non è questo il partito leninista indicato da Gramsci, pur rapportato ai tempi attuali. Che fare? È un movimento e, come tale, ha una funzione importante specialmente nell’attirare al voto “comunisti” di varie tendenze e nel sollecitare l’opposizione parlamentare della Sinistra criticando il governo, i partiti borghesi, i partiti socialdemocratici, criticando il Pds sempre con senso unitario. Quindi continuare l’impegno per dare il nostro contributo come marxisti-leninisti. Nello stesso tempo stiamo attenti a non disperdere 25 anni di esperienze nella lotta di classe e di elaborazione marxista-leninista e gramsciana. Comunque, la crisi della società italiana, la crisi del capitalismo mondiale e le ultime esperienze di lotta ripropongono la questione del partito.