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Deng Xiaoping e la rivoluzione culturale
di Amedeo Curatoli
La recentissima pubblicazione edita dalla Rizzoli dal titolo "Deng Xiaoping e la rivoluzione culturale" ha un valore documentario notevole, per noi occidentali, costituendo essa una fonte primaria da cui attingere una miriade di notizie. L’autrice è Deng Rong, figlia del dirigente comunista che appare nel titolo del libro, la quale, avendo vissuto insieme alla sua famiglia le traversie della rivoluzione culturale, ne fa un bilancio critico che si risolve, alla fin dei conti, in un forte atto di accusa di quel periodo storico.
In effetti, per moltissimi dirigenti del Partito comunista cinese a tutti i livelli, dal vertice alla base, a partire dal Presidente della Repubblica Liu Chaoqi, che furono accusati di aver imboccato la via capitalista e dunque divenuti oggetto di una violenta campagna politica di odio e di denigrazione, si trattò (non solo per gli accusati, ma anche per i loro familiari) di una lunga vicenda di dolori, contrarietà, sventure durata un decennio. Converrebbe prestare grande attenzione a questo libro (che non è un memoriale a fini scandalistici del tipo di quelli scritti da Svetlana Stalin) poiché l’autrice, che è stata deputata al Congresso del popolo, ha avuto accesso all’Ufficio di documentazione storica del Comitato centrale, e ha sottoposto il testo, prima della definitiva stesura e pubblicazione, a molti dirigenti del Pcc.
Nell’agosto del 1966 Mao Zedong - che lanciò personalmente la rivoluzione culturale - ricevette i rappresentanti delle guardie rosse e salutò dall’alto della porta Tienanmen un milione di "giovani ribelli rivoluzionari". Fino alla fine di novembre di quello stesso anno, in otto diverse occasioni, Mao avrebbe salutato in totale oltre undici milioni di loro e grazie al suo appoggio personale il movimento delle guardie rosse crebbe rapidamente e si espanse con maggior impeto e forza. Due gruppi di potere distinti - che trovavano terreni di incontro ma anche di forti disaccordi - si contendevano la direzione del movimento: l’uno faceva capo a Lin Biao (che Mao designò - per statuto! - suo successore come presidente del Pcc), l’altro a Jiang Qing (moglie di Mao), Zhang Chungqiao, Wang Hongwen e Yao Wenyuan (che passeranno alla storia con il nome di Banda dei Quattro).
Il bersaglio delle guardie rosse erano "le vecchie quattro cose", vale a dire: le vecchie idee, la vecchia cultura, i vecchi costumi e le vecchie abitudini delle classi sfruttatrici. Data l’estrema genericità degli obiettivi da colpire, è facilmente comprensibile come sia potuto accadere che centinaia di migliaia (non migliaia ma centinaia di migliaia) di membri del Pcc venissero perseguitati da masse di guardie rosse fanatizzate, e quindi assoggettati ad illegali processi sommari, delegittimati, messi alla gogna, costretti ad andare in giro con le orecchie d’asino, spesso percossi o addirittura lapidati fino alla morte, come accadde al ministro dell’Industria carbonifera Zhang Linzhi. Ma la furia delle guardie rosse non risparmiò neanche i vecchi eroi della Guerra di Liberazione, come il maresciallo He Long che fu spietatamente perseguitato fino alla morte avvenuta nel 1969. Altri che non riuscirono a sopportare le oltraggiose mortificazioni e i pestaggi si suicidarono.
La stessa sorte dei quadri di partito toccò ad un gran numero di intellettuali, professori universitari, scrittori, scienziati, poeti: da questo punto di vista lo straripante movimento delle guardie rosse rivelò la sua natura populistico-plebea che mentre propugnava un idealistico egualitarismo assoluto ed inneggiava ad un pensiero di Mao Zedong spezzettato e ridotto in formule, allo stesso tempo si scagliava con impeto indiscriminato e blasfemo contro gli uomini e le istituzioni rappresentanti la grande cultura. Presumibilmente, dovettero trovare scampo all’onda distruttiva solo quegli intellettuali che per calcolo o per autentica infatuazione decisero di cavalcare la tigre costituita dal movimento dei "ribelli rivoluzionari".
Deng Rong racconta che ebbero gran successo dei versi, apparsi per la prima volta su un manifesto murale a grandi caratteri affisso in una scuola di Pechino, che si diffusero rapidamente in tutta la Cina. Questi versi dicevano: "Se il padre è un eroe, suo figlio è un buon uomo; se il padre è un reazionario, il figlio è un uovo marcio - questo è un principio universale". Il primogenito di Deng Xiaoping essendo ritenuto un "uovo marcio" perché figlio del "secondo più grande reazionario" della Cina, pagò un elevato prezzo alla violenta intolleranza e faziosità delle guardie rosse: sequestrato e rinchiuso in un’aula dell’università di Pechino, ripetutamente malmenato per giorni poiché si rifiutava di "confessare i crimini" del padre, in un momento di distrazione dei suoi guardiani si lanciò dalla finestra per suicidarsi. Rimarrà handicappato per il resto della vita essendoglisi fratturata, a seguito della caduta, la colonna vertebrale.
La valutazione degli avvenimenti in Cina nel decennio 1966-1976 (ma anche del decennio 1957-1966) riveste una grandissima importanza per il movimento comunista internazionale, perché quegli eventi, e il clima politico straordinariamente teso che li alimentò, non sono stati un fenomeno puramente ed esclusivamente interno alla realtà del grande paese asiatico, ma hanno esercitato - come vedremo - un’influenza decisiva anche nell’arena politica mondiale. In un importante discorso di grande rilievo teorico pronunziato da Mao nel 1956 a seguito dei fatti d’Ungheria, "Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo", viene detto che (presumibilmente soprattutto in un paese retto da un partito comunista) anche le divergenze per loro natura potenzialmente antagoniste, se trattate correttamente, possono avere un’evoluzione positiva e configurarsi come contraddizioni in seno al popolo quindi risolversi pacificamente con il metodo della persuasione, evitando scontri sanguinosi ed insurrezioni controrivoluzionarie del tipo di quella avvenuta in Ungheria.
La pratica della rivoluzione culturale - secondo la valutazione che ne è stata fatta in seguito dal Pcc - è andata nella direzione diametralmente opposta a quel celebre discorso: si potrebbe dire che si è trattato di una ingiusta soluzione delle contraddizioni, nel senso che le posizioni contrarie o comunque divergenti rispetto ad una presunta giusta linea, sono state definite borghesi, controrivoluzionarie, capitaliste ecc. restringendo drasticamente o annullando del tutto ogni spazio di dialogo e di democrazia che devono esistere, secondo l’auspicio di Mao del 1956, in un Partito comunista. Ciò creò, di conseguenza, una pesante situazione di instabilità e di guerra civile che ha portato la Cina sull’orlo di una grave crisi. Lo stesso Mao Zedong ammise - contraddittoriamente - che se le realizzazioni positive della rivoluzione culturale costituivano il 70%, per il rimanente 30% essa "aveva scatenato una guerra civile su larga scala"!
La rivoluzione culturale, nonostante il clamoroso e per certi versi raccapricciante episodio del tentativo di fuga in Urss di Lin Biao, avvenuto il 13 settembre 1971 (che avrebbe dovuto aprire gli occhi sulla natura controrivoluzionaria dei massimi dirigenti del movimento delle guardie rosse), cessò soltanto all’indomani della scomparsa di Mao Zedong. Egli morì il 9 settembre del 1976 e 27 giorni dopo i componenti della Banda dei Quattro furono arrestati. Se costoro scomparvero definitivamente dalla scena politica in modo così repentino e senza che il loro arresto producesse contraccolpi e spargimenti di sangue o anche semplicemente manifestazioni di massa in loro appoggio, ciò sta ad indicare che la loro forza e il prestigio di cui godettero per ben dieci anni, si giustificavano e si comprendevano soltanto grazie all’appoggio politico che essi ricevettero da Mao, figura carismatica irraggiungibile che mai come in quel decennio, screditando di fatto il Partito comunista con il celebre ordine di "far fuoco sul quartier generale" , ebbe in pugno il destino di un’intera nazione sterminata come la Cina. Citando il leitmotiv ricorrente in quel periodo "una frase di Mao vale più di diecimila frasi dette da altri", Deng Rong aggiunge: "Ogni sua accidentale reazione emotiva veniva accolta come suprema direttiva".
Per i comunisti di altri paesi che cercano di capirci qualcosa sulla svolta operata dal Pcc negli anni successivi alla morte di Mao, la valutazione di questa svolta costituisce una questione ancora aperta, irrisolta. Alcuni, si può ipotizzare, continuano a mantenere - nella migliore delle ipotesi - tutta una serie di riserve e adottano un atteggiamento, per così dire, di "sospensione di giudizio"; altri invece risolvono il dilemma in termini drasticamente negativi. Il Partito comunista del Nepal, per esempio, che da anni è impegnato non in chiacchiere teoriche come da noi, ma in una guerra civile rivoluzionaria contro il regime semifeudale colà esistente, dice, per bocca del suo presidente Prachanga - e lo dice in un modo perentorio che non ammette repliche - che "dopo la morte di Mao, in Cina c’è la controrivoluzione". Sulla stessa lunghezza d’onde è il Partito comunista peruviano, anch’esso impegnato nella lotta armata. Per non parlare poi dei gruppi dirigenti di alcune organizzazioni comuniste in Italia, le quali, con notevole disinvoltura, pongono la Cina "accanto ai paesi arabi moderati".
Intanto, per tutti coloro che levano il dito accusatore contro la Cina di oggi (non parliamo ovviamente di intellettuali, professori, politici e politologi borghesi ma di coloro che non hanno reciso i legami con una cultura marxista) non ha alcun rilievo porre a confronto il dopo-Stalin e il dopo-Mao, ritenendo evidentemente inutile esaminarne le analogie e le diversità. In ambedue i casi quei Partiti hanno deciso di voltare pagina, ma mentre la svolta, in Urss, si è risolta in una rottura irreversibile operata all’insegna di un unilateralismo antistorico che ha prodotto una vera e propria demonizzazione di Stalin, in Cina le cose sono andate diversamente.
Si può comprendere come il decennio di instabilità, anarchia e regressione economica prodotti dalla rivoluzione culturale abbia potuto dare spazio a delle forti o fortissime spinte alla demaoizzazione: quando la gente criticava la Banda dei Quattro mostrava le cinque dita della mano, come per dire che in quella "banda" ce ne era anche un quinto, Mao Zedong.
Deng Xiaoping ha avuto un destino davvero singolare: allontanato dai vertici del partito per ben tre volte, fu poi successivamente riabilitato e quindi richiamato a farne parte. La prima volta accadde nel 1933 quando fu "epurato" perché sostenitore della linea di "guerriglia agraria" sostenuta da Mao in opposizione alla direzione "bolscevica" di Wang Ming. Ritornò ai vertici nel 1935, nella famosa Riunione di Zunyi, nel corso della Lunga Marcia, quella in cui prevalse la linea e la figura di Mao Zedong contro i "kominternisti".
La seconda fu nel 1966, con lo scoppio della rivoluzione culturale. Fu riabilitato nel 1973 dopo un periodo di arresti domiciliari su ordine diretto di Lin Biao e tre anni di lavoro come operaio in una fabbrica di trattori a Nanchang. L’anno successivo ebbe notorietà mondiale perché pronunziò all’Onu un discorso applauditissimo in seguito all’ammissione della Cina nel Consiglio di Sicurezza, seggio usurpato da Taiwan.
Il terzo allontanamento dalle cariche di partito avvenne nel 1976, pochi mesi dopo la scomparsa di Zhou Enlai, nell’aprile del 1976, quando masse di milioni di cinesi, oppositori della Banda dei Quattro, si riversavano quotidianamente in piazza Tien An Men per deporre ai piedi del monumento dei Caduti della Rivoluzione corone di fiori e grandi ritratti di Zhou Enlai (accusato da Jang Qing di essere "il primo confuciano"). Dopo giorni, la polizia intervenne e caricò la folla operando decine di arresti. Degli incidenti fu incolpato Deng. Poco meno di un anno dopo, in seguito alla caduta della Banda dei Quattro, il Decimo Congresso del Pcc approvò all’unanimità una "Risoluzione sul reinsediamento del compagno Deng Xiaoping nei suoi incarichi".
Dal racconto delle vicende di quest’uomo che ne fa la figlia, con il supporto di una serie di documenti noti e inediti, nonché dagli stessi discorsi e scritti di Deng, emerge la figura di un comunista integro che, escludendo la via del complotto o peggio della ipocrita abiura delle proprie posizioni, nelle durissime prove a cui fu sottoposto (ivi comprese penose autocritiche pubbliche fatte tra gli insulti delle guardie rosse), seppe mantenere un comportamento irreprensibile e coraggioso come pochi altri avrebbero saputo fare al suo posto. Non a caso Mao Zedong si oppose sempre alla ripetuta richiesta, prima di Lin Biao e poi dei Quattro, di espellerlo dal Partito. Dopo momenti di incertezza, dovuti ad un atteggiamento oscillante di Hua Guofeng (che Mao stesso designò suo successore), fu Deng Xiaoping a dirigere con grande energia, misura, lucidità e senso della giustizia un vasto dibattito durato un anno, a cui parteciparono 4000 quadri di partito, dal quale doveva nascere un documento di bilancio storico di tutta l’esperienza del Partito comunista cinese.
Questo documento, che ebbe svariate redazioni prima della stesura definitiva, fu intitolato "Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito dalla fondazione della Repubblica popolare cinese". Esso può essere considerato il contraltare del famigerato Rapporto segreto di Krusciov. Deng sostenne che in questa Risoluzione bisognava ribadire innanzitutto il valore universale del pensiero di Mao Zedong. "Il compagno Mao - egli disse - ha reso servigi immortali al nostro partito, al nostro paese e al nostro popolo nel corso della sua vita. I suoi contributi sono primari e i suoi errori secondari. Ma l’evitare di far menzione dei suoi errori a causa di questi contributi non sarebbe un atteggiamento materialista. Né sarebbe un atteggiamento materialista negare i suoi contributi a causa di quegli errori" (Deng Xiaoping: "Socialismo alla cinese" - Editori Riuniti, pag.189). Ma anche nel menzionare gli errori di Mao, Deng ha suggerito di tener conto dei limiti storici obiettivi che quegli errori avevano generato: "Dalla vecchia Cina abbiamo ereditato una forte tradizione di dispotismo feudale e una debole tradizione di legalità democratica. Per di più, negli anni successivi alla Liberazione non abbiamo definito norme e regolamenti sistematici in difesa dei diritti democratici del popolo. Anche una grande personalità come il compagno Mao Zedong è stata influenzata in modo grave da certi sistemi e certe istituzioni malate, e ne vennero gravi disgrazie per il partito, per lo Stato e per lui medesimo" (Ibid. pag. 187 -188)
Abbiamo riportato per esteso queste citazioni perché, in tale linguaggio piano (forse troppo insoddisfacente per i gusti dei fini dicitori del nostro sofisticato politichese di sinistra) si compendia un’importante svolta politica scaturita dall’"apprendimento" degli errori (che è una cosa complessa) anziché dal "rigetto" unilaterale dei medesimi (che è una cosa facile e semplice, come era il cervello di Krusciov). Deng riuscì a dare una risposta anche a coloro che volevano inserire nella predetta Risoluzione il ruolo "inesistente" del Pcc durante la rivoluzione culturale. Egli sostenne che se così fosse stato, il Partito non sarebbe riuscito ad eliminare la Banda dei Quattro "senza sparare un colpo". In effetti, il Partito comunista cinese aveva pesantemente subito l’orientamento ultrasinistro degli ultimi anni di vita di Mao Zedong ma era stato in grado di attendere. E, lungi dal lasciarsi sfuggire di mano, gorbaciovianamente, il corso degli eventi, ha saputo raddrizzare una situazione che poteva compromettere il destino stesso della Cina, e non solo. Ha fatto ciò, potremmo dire per fortuna del movimento comunista mondiale, proprio nell’epoca cruciale che avrebbe portato di lì a poco alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dell’Est europeo. Pertanto, gli atteggiamenti censori dei comunisti critici, osservatori esterni della Cina, si risolvono in "analisi" semplicistiche e superficiali tanto sconsiderate quanto irrispettose di quel tormentoso periodo storico da cui, però, è riuscito a venir fuori il grande paese asiatico.
L’ultrasinistrismo che ha caratterizzato anche (secondo l’analisi dell’attuale dirigenza del Pcc) il decennio precedente la rivoluzione culturale, deve aver condizionato, inevitabilmente, le scelte di politica internazionale della Repubblica popolare cinese. Di influenze ultrasinistre non fu immune nemmeno la Terza Internazionale allorché definì la socialdemocrazia europea socialfascista. L’errore - come è noto - fu superato al Settimo congresso dell’I.C. che, operando un’autentica inversione di marcia, inaugurò una nuova politica, più aderente alla realtà storica dell’epoca, quella dei Fronti popolari antifascisti.
Le divergenze sempre più acute con il Pcus kruscioviano indussero il Pcc a definire socialimperialista l’Urss. Mao affermò addirittura che in quel paese era al potere una "borghesia monopolistica di tipo tedesco-hitleriano". Ora, senza voler cadere nella trappola del "gioco delle analogie" (secondo l’espressione di Losurdo) non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Mao Zedong rinnovò, con la sua definizione dell’Urss kruscioviana, l’errore della Terza Internazionale. Ci sarà pure - a giudicare da quello che poi è accaduto all’Urss e di cui noi siamo stati testimoni - una differenza tra Krusciov e Eltsin? Oppure ci intestardiamo a ripetere (trovandoci immersi nell’oscurità della notte) di esser certi che tutte le vacche che intravediamo sono nere? La degenerazione socialdemocratica (e non socialnazista) di un partito che era al potere in un grande Stato socialista fu un fenomeno nuovo nella storia del movimento operaio.
Il leninismo nacque e si sviluppò in antitesi alle degenerazioni socialdemocratiche dei partiti occidentali: esso non poteva dare risposte su un evento storico del tutto inedito. Krusciov era a capo della seconda potenza mondiale ed aveva delle terribili armi di pressione e di "persuasione" per ridurre all’obbedienza alla sua linea socialdemocratica (allora si diceva ‘revisionista’) il resto del mondo comunista. Ma è forse idealistico pensare che il Partito comunista cinese, anch’esso forza dirigente di un grande paese, che però si manteneva fedele ad una linea marxista rivoluzionaria, avrebbe potuto avere, per questo fatto stesso, risorse teoriche e di principio tali da individuare una tattica che non portasse a quell’irreparabile contrapposizione (sfociata in scontri armati sull’Ussuri) che aprirono varchi inaspettati all’imperialismo americano?
Se non ci ponessimo, retrospettivamente, domande di questo genere, non rischieremmo di cadere nel determinismo, nel senso di arrivare alla conclusione che tutto ciò che è accaduto non poteva non accadere?
A coloro che parlano a cuor leggero di capitalismo restaurato in Cina desidereremmo che riflettessero su quest’ultima citazione di Deng Xiaoping: "Dobbiamo aprirci al resto del mondo. Non può danneggiarci. I nostri compagni hanno sempre il timore che ne possano derivare cose indesiderabili. Si preoccupano soprattutto che il Paese possa diventare capitalista. Temo che alcuni dei nostri vecchi compagni abbiano di tali dubbi. Hanno dedicato la vita al socialismo e al comunismo e lo spettro del capitalismo li fa inorridire. Da qui i dubbi. Ma questo non avverrà. Anche se vi saranno certamente degli effetti negativi. Dobbiamo essere vigilanti, anche se non sarà difficile superarli" (Cit. pag. 235). Egli parlava al suo Partito, di oltre 60 milioni di iscritti, al suo popolo, di oltre un quinto del genere umano, non diceva queste cose per tentare di ingannare i comunisti critici del nostro e di altri paesi.